In vista delle elezioni iraniane. Con ogni probabilità, i commenti alle prossime elezioni presidenziali iraniane saranno focalizzati sui limiti posti alla democrazia a Teheran. I più enfatizzeranno il ruolo del Consiglio dei Guardiani, il quale ha il potere di approvare o meno ogni candidatura, valutandola in base a due parametri: la Costituzione e l’Islam.
Raramente, infatti, l’attenzione generale si concentra su una variabile che ha invece una crescente importanza: l’influenza dell’elettorato nei calcoli politici delle elite iraniane.
La rivalutazione della sovranità popolare è una sorta di “effetto perverso” legato alla ricerca di un successore di Khomeini. Quando la Costituzione venne cambiata, nel 1989, sparì la clausola secondo la quale il più alto incarico religioso della Repubblica islamica dovesse essere conferito ad un marja-e taqlid, ovvero la più alta autorità della gerarchia sciita. Stando al nuovo dettame costituzionale divenne più importante essere “consapevole delle circostanze dei tempi”. Proprio questo emendamento permise a Khamenei, esponente del clero di medio rango, di accedere al posto di Guida Suprema religiosa. La scelta di Khamenei rivela quanto non fosse tanto determinante la sua posizione all’interno della gerarchia sciita, bensì il grado del suo supporto politico ed il peso effettivo della sua fazione.
Criteri di tipo politico prevalsero così su quelli religiosi nella selezione della Guida Suprema. Al contempo la riforma costituzionale abolì l’incarico di primo ministro rafforzando in tal modo la posizione del presidente eletto direttamente dal popolo. Le riforme costituzionali hanno innegabilmente fissato un quadro legale che ha favorito l’aumento del peso relativo dell’elettorato popolare nel sistema cosiddetto “islamico”. L’elezione alla presidenza di Khatami nel 1997 ne fu una chiara testimonianza. Invece di cercare un sostegno istituzionale o religioso, Khatami diresse la propria attenzione verso la società civile. Mentre Nateq-Nuri, il candidato della destra tradizionale, rifiutava interviste alla stampa progressista, Khatami costruiva la sua immagine attraverso un intenso rapporto con giornali e riviste. La ricerca di consenso dal basso si rivelò una mossa vincente. Sebbene godesse del sostegno religioso ed istituzionale della Guida Suprema, Nateq-Nuri fu sconfitto.
Anche nella vittoria di Ahmadinejad nel 2005 la mobilitazione di una parte dell’elettorato fu determinante. Delusa dalla divisione interna della sinistra così come dall’assenza di un’alternativa sociale alla politica “neo-liberale”, una consistente fetta dell’elettorato abbandonò la “sinistra rinnovata” per sposare il populismo della destra radicale di Ahmadinejad, che sconfisse anche Rafsanjani. Si trattò di un successo inaspettato poiché l’ex-presidente della Repubblica e del parlamento, nonché attuale presidente dell’Assemblea degli Esperti e del Consiglio per l’Interesse del Regime, rappresentava l’incarnazione del potere istituzionale.
La legittimità religiosa o l’appoggio istituzionale, da soli, non riescono più a determinare l’esito delle elezioni. La lotta fra diverse tendenze politiche promuove, infatti, la ricerca di nuove risorse nella competizione per il potere. Il supporto elettorale costituisce ovviamente un asset fondamentale, influendo sempre di più sulle scelte dei candidati. Le elezioni presidenziali di giugno potrebbero rafforzare ancor di più questo tipo processo.
Il caso del sindaco di Teheran, Mohamed Baqer Qalibaf, è esemplare. Nonostante egli goda di una stima “bipartisan” da parte dell’élite della capitale, non si presenterà alle elezioni. Membro, come Ahmadinejad, della coalizione di destra, non è stata tanto la sua opposizione al governo, quanto l’ avvalersi del sostegno di consiglieri comunali di sinistra ad avergli fatto perdere buona parte del suo elettorato tradizionale. Dato che già nel 2005 non era riuscito a convincere le classi popolari, prima di ripresentarsi al voto, il sindaco mira a ricostruirsi una nuova base elettorale ed un proprio partito politico.
La scelta del candidato della sinistra (i “Riformatori”) continua a essere un processo complesso con esito incerto. Karrubi, ex presidente del Parlamento e dirigente del partito “Fiducia nazionale”, ha da tempo annunciato la sua candidatura, ma per molti la vera questione era se i Riformatori dovessero presentare Khatami o Mir Hussein Musavi. Sebbene l’ex presidente Khatami goda tutt’ora di una stima importante, non sembrava in grado di legare liberalizzazioni socio-culturali a un programma economico convincente. L’ex primo ministro Musavi ha invece seguito il rinnovamento della sinistra con poco entusiasmo. Mentre difende tutt’ora il ruolo fondamentale dello stato nello sviluppo economico del paese, Musavi pone un’attenzione minore rispetto a Khatami nei confronti delle liberalizzazioni socio-politiche. Un riformatore più moderato che si concentra sulle difficoltà socio-economiche dei ceti sociali medio-bassi potrebbe rivelarsi la carta vincente per riprendere voti alla destra populista di Ahmadinejad.
Dalla nomina de facto del presidente da parte di un capo religioso (come fu il caso di Bani Sadr nel 1980) l’Iran è passato a un sistema elettorale presidenziale in cui l’elettorato può giocare un ruolo essenziale. Una rivoluzione interna troppo spesso oscurata da eccessive semplificazioni di un contesto altamente complesso.
Riproduzione riservata