Studiando da anni il giornalismo e le sue tante evoluzioni in questo periodo di burrascosi cambiamenti, spesso ripeto una battuta che – come spesso capita alle battute – contiene una buona dose di verità. Quando ho iniziato a studiare il giornalismo molti auspicavano l’americanizzazione di quello italiano. L’assunzione di un modello giornalistico di grande autorevolezza, basato su obiettività e completezza, che vedeva nei giornalisti i custodi della civiltà, come – non senza enfasi - aveva scritto Tocqueville. Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è l’italianizzazione del giornalismo americano. Il mancato endorsement del "Washington Post" per le imminenti elezioni presidenziali ne è una chiara conferma.
Dietro l’insoddisfazione per il modello giornalistico italiano e il gradimento (esagerato) per il modello americano c’era un preciso motivo: la stretta dipendenza dalla politica della nostra informazione, a cui si contrapponeva l’autonomia del giornalismo americano. Beninteso, un’autonomia relativa, perché l’informazione è un bene così strategico che non è possibile, e probabilmente nemmeno opportuno, una sua netta separazione dall’interesse della politica.
Chiariamolo subito, la forte dipendenza del giornalismo italiano dalla politica si è molto attenuata negli ultimi anni, sebbene permangano retaggi culturali duri a morire, soprattutto in alcuni àmbiti (leggi il servizio pubblico). Tuttavia, sarebbe sbagliato leggerla come una perversione attribuibile a qualche maleficio o tara culturale presente nel Paese. Più semplicemente, è la conseguenza della difficoltà di avere imprese editoriali economicamente indipendenti in un Paese con pochi lettori e un numero ridotto di aziende in grado di investire significativamente in pubblicità. Da qui il ricorso alla figura dell’editore impuro: imprenditori che traggono i loro profitti principali da altri settori e possiedono le testate giornalistiche per contrattare – spesso compiacendola – la classe politica.
Ebbene, è proprio attribuibile ad analoga impurità la decisione presa in questi giorni dall’editore del “Post” – Jeff Bezos, proprietario di Amazon e non solo – di non schierare il famosissimo quotidiano americano a fianco di uno dei due candidati alle presidenziali del 5 novembre. L’endorsement, come ben si sa, è un tratto distintivo dei giornali americani, che il “Washington Post” ha praticato sin dal 1976 a favore del candidato democratico (Jimmy Carter, quell’anno).
Eccoci all’italianizzazione del giornalismo americano.
Si potrebbe osservare che non schierarsi significa mantenere maggiore distacco e autonomia dal campo politico; evidenziando, pertanto, maggiore e non minore indipendenza. Le cose, purtroppo, non stanno così. Nel giornalismo americano l’endorsement è sempre stato visto come conseguenza dell’autorevolezza e dell’indipendenza dalla politica del giornalismo; capace di dichiarare ogni 4 anni da che parte stare, proprio perché in grado nei 4 anni successivi di non fare sconti a nessuno, meno che mai al presidente per cui ci si era spesi e per il suo partito.
Paradossalmente, l’endorsement simboleggia la forza della terzietà del giornalismo americano, in grado di reggere anche la dichiarata adesione per una delle due parti in gioco
Paradossalmente, l’endorsement simboleggia la forza della terzietà del giornalismo americano, in grado di reggere anche la dichiarata adesione per una delle due parti in gioco. La decisione di Bezos è ancora più sorprendente se si considera che si tratta del quotidiano che pubblicò - proprio negli anni Settanta - l’inchiesta politica più famosa al mondo: il caso Watergate.
Tuttavia, è facilmente spiegabile. La pluralità di interessi economici di Bezos, ben più ampi di quelli legati all’editoria giornalistica, lo fanno essere a tutto tondo un editore impuro. In questi giorni il “New York Magazine” ha ricordato come nel 2019 l’allora presidente (e ora candidato) Trump ordinò la cancellazione da parte dell’amministrazione americana di un contratto da 100 miliardi di dollari con Amazon proprio come ritorsione per gli articoli del “Post” contro di lui. Chiaramente per un imprenditore di tale portata l’illustre testata non rappresenta un asset strategico, da qui la decisione di cancellare l’editoriale già pronto in favore di Kamala Harris, che ha provocato le dimissioni di uno fra i più importanti editorialisti del giornale, Robert Kagan, e le proteste di buona parte del corpo redazionale; oltre che lo stupore di tanti osservatori e addetti ai lavori. I due famosissimi giornalisti autori delle inchieste sul caso Watergate - Bob Woodward e Carl Bernstein - hanno definito la scelta "sorprendente e deludente".
Evidentemente, è stato ritenuto più opportuno, in una corsa elettorale dall’esito così incerto, non tagliarsi ponti alle spalle schierandosi con quella che si sarebbe potuto rivelare la parte sbagliata. Soprattutto, se uno dei contendenti non nasconde, in caso di successo, di volersi vendicare di tutti gli avversari. Non stupisce, allora, che un’analoga decisione sia stata presa anche dal “Los Angeles Times”, testata anch’essa proprietà di un altro miliardario, impegnato nell’industria farmaceutica.
Del resto, le connessioni del giornalismo con il grande capitalismo mondiale non si limitano ai mancati endorsements. Basti riportare un semplice dato: Google, Amazon e Meta da sole incassano ben oltre la metà degli investimenti pubblicitari di tutto il mondo. Riescono a raggiungere questo risultato perché attraverso di loro passano le informazioni giornalistiche prodotte da tutti i gruppi editoriali. Infatti, la maggior parte delle persone – ormai non più soltanto gli under 40 – accedono alle news tramite i social e, comunque, trascorrono sulle piattaforme la maggior parte del loro tempo libero. Si capisce bene, pertanto, come il campo giornalistico sia diventato un sottoinsieme di una più ampia partita fra pochissime multinazionali della tecnologia e i decisori politici, spesso spaventati da minacce di disinvestimenti che tali multinazionali avanzano quando infastidite da decisioni politiche, che le penalizzano.
In una corsa elettorale dall’esito così incerto, si è ritenuto più opportuno non tagliarsi ponti alle spalle schierandosi con quella che si sarebbe potuto rivelare la parte sbagliata
In questa partita le aziende editoriali diventano soggetti sempre più fragili, alle prese con strategie di più ampia portata dei big players e affaticati dall’esigenza di investire ingenti risorse in innovazioni di prodotto dai risultati incerti e, comunque, a lunga scadenza, proprio per la migliore capacità delle piattaforme di intercettare gli investimenti pubblicitari, perché in grado di fornire una profilazione migliore dei target grazie alla grande quantità di dati in loro possesso.
Di conseguenza, diventano facile preda di imprenditori solidi economicamente e con ben altri interessi rispetto all’autonomia giornalistica, che rinverdiscono oltreoceano – ma anche in altri contesti nazionali – la cinica quanto veritiera constatazione di Mario Missiroli, che diresse fra gli altri il “Corriere della Sera” negli anni Cinquanta, di come i giornali fossero voci passive di ben altri attivi che gli imprenditori traevano attraverso la negoziazione con il sistema politico.
Del resto, per parlare di un altro imprenditore che si è fatto pesantemente coinvolgere da questa campagna per le presidenziali americane, l’acquisto di Twitter (ora X) da parte di Elon Musk è una ulteriore conferma di quanto si è qui cercato di argomentare.
La decisione di Bezos non può essere archiviata come puro fatto di cronaca, mera esemplificazione della durezza dello scontro di queste presidenziali e dell’incertezza del risultato. Conferma, piuttosto, come il valore sociale delle news, che garantisce la tenuta democratica di uno Stato, sia un bene strategico da difendere anche nel Paese che abbiamo sempre visto – spesso con troppo ottimismo – come paladino del lavoro giornalistico.
Riproduzione riservata