Il dibattito seguito all’articolo di Paolo Pombeni sulla crisi della liberaldemocrazia, per il rilievo del tema e per la qualità degli interventi, invita a proseguire e ad ampliare la riflessione. L’interpretazione di un fenomeno così complesso richiede l’impiego di guardature differenti, non solo sotto il profilo delle discipline, ma anche nella indicazione degli eventi e dei processi storici pertinenti, capaci di suggerire letture a più fuochi. Norberto Dilmore sostiene, per esempio, che sarebbe la grande crisi finanziaria e dei debiti sovrani del 2008-2011 il punto di svolta, dopo il quale, caduta miseramente l’illusione del modello economico supply side, il risveglio traumatico dalla sbornia neoliberista avrebbe spianato la strada alla crisi della liberaldemocrazia stessa, incapace di svincolarsi da quel modello e, da quel momento, a rischio di venire travolta con esso. Ipotesi suggestiva e plausibile: quel momento storico ha effettivamente costituito un tornante, ma – almeno ai fini del nostro discorso – più come apice drammatico di un processo erosivo cominciato assai prima, che come imprevista frattura.
Se dovessi datare il periodo che dà inizio a questa erosione, guarderei agli anni Novanta. In quel decennio, come ha chiarito definitivamente Vittorio Emanuele Parsi (Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l'ordine liberale, Il Mulino, 2022), vengono meno i tre pilastri fondamentali che garantivano il consenso e il successo dell’Occidente: 1) l’inscindibilità di liberaldemocrazia e capitalismo (prende corpo il capitalismo di Stato della Cina); 2) il nesso crescita della ricchezza e sua distribuzione (ovvero la ricchezza collettiva, attraverso la fiscalità, non si trasforma più in aumento di salari, servizi e diritti); 3) l’idea che la globalizzazione fosse foriera di maggiore sicurezza internazionale (in quanto tutti hanno da guadagnare dalla fluidità dei mercati assicurata dalla stabilità geopolitica). Alla prova del fuoco, gli organismi sovranazionali di regolazione diplomatica dei conflitti, Onu in primis, si rivelano impotenti. Le guerre nella ex-Jugoslavia sono il banco di prova (primo di una serie) che certifica la loro irrilevanza, talora persino dannosa.
Nel quadro trova poi luogo anche la disillusione, maturata progressivamente nei decenni successivi, riguardo alla possibilità che, caduta l’Urss, si sarebbe ovunque affermato, oltre cortina, il modello liberaldemocratico. Questo è in parte avvenuto, grazie all’allargamento a Est della Ue e l’unificazione della Germania; ma va riconosciuto che non soltanto il processo si è infranto ai confini della Russia e della sua progressiva torsione neoimperiale, ma ha subito controspinte anche dall’interno di alcuni grandi Paesi dell’Europa centrale, pure entrati nell’Unione, dove hanno preso stanza esperienze di democrazia illiberale, che hanno finito per contagiare anche segmenti crescenti dell’opinione pubblica (e forze politiche non residuali) nei Paesi di più lunga tradizione liberaldemocratica, nell’Occidente dell’Unione.
Mi chiedo se la posta in gioco riguardi non tanto l’alternativa idem/aliter, ma lo stesso sentire de re publica, condizione minima del percepirsi parte di una comunità regolata dalle norme che la istituiscono e la governano
Dal canto suo, in una ricostruzione storica sintetica ma di ampia gittata, Pombeni pone il problema nei termini di una crisi dei fondamenti condivisi della polis, il venir meno dell’idem sentire de re publica. Mi chiedo se la posta in gioco non sia più essenziale ancora e riguardi non tanto l’alternativa idem/aliter, ma lo stesso sentire de re publica, condizione minima del percepirsi parte di una comunità regolata dalle norme che la istituiscono e la governano. La crisi della democrazia è crisi della politica, intesa come farsi quotidiano di opinioni e orientamenti che maturano nell’arena pubblica di una società aperta e incidono sui meccanismi della decisione. Indicherei quattro aspetti di questo processo, in parte di lunga durata, in parte tipici della tarda modernità e del contesto attuale.
Individualizzazione e politica. In una pagina del 1969 dal sapore profetico, Michel de Certeau intravedeva l’avvento di “una società tecnocratica, che combina la competenza e il successo, determinata da obiettivi limitati e che precisa la condizione della loro realizzazione, relegando le convinzioni nell’ambito del privato, dissociandosi dagli imperativi etici e dalle convinzioni sociali a mano a mano che essa si applica a migliorare le ‘condizioni’ di vita, limitando sé stessa al compito di organizzare razionalmente il ‘buon vivere’”. Dall’interno della “società affluente” (siamo pur dentro i “trenta gloriosi”), Certeau coglieva gli indizi di una progressiva marginalizzazione della sfera valoriale e ideale, confinata nel privato e sostituita nel pubblico dal sogno collettivo di un miglioramento continuo delle condizioni di vita, che la razionalità tecnocratica dominante – un potere senza contropoteri – si incaricava di garantire. La “società liquida” non sarebbe quindi l’esito della crisi del modello, storicamente manifestatasi a più riprese a partire dallo shock petrolifero dei primi Settanta, ma frutto avvelenato del modello stesso. La fortunata formula di Bauman, da intendersi nei limiti di una descrizione fenomenologica della società attuale e non come destino scritto di una intera civiltà, interessa qui solo nel suo riverbero sull’azione politica. Va detto con chiarezza che processi di individualizzazione (il bowling alone di Putnam) non comportano affatto la liquefazione delle reti sociali. Queste infatti sono mutate profondamente, si sono trasferite altrove, sfumano talora dal fisico al virtuale, ma esistono sempre. Il problema è che non costituiscono più un appiglio solido per la politica, non creano né constituency durature, né soggetti collettivi diffusi capaci di mobilitare valori e tradizioni. In questo senso la politica oggi non ha ancoraggio nella società (l’astensionismo è solo il più visibile degli esiti di questo scollamento). Il capitale sociale non è scomparso (altrimenti non si capirebbe come un paese così apparentemente disarticolato come il nostro stia in piedi), ma si è reso inafferrabile.
Rarefazione delle élite. Anche qui. La questione non si pone in termini di scomparsa, ma di nascondimento. Da un lato, il corpo sociale non riconosce più l’esistenza, in termini di legittimità, di minoranze (i “piccoli numeri” di Weber) autorizzate – per prestigio acquisito o per primazia culturale – a esercitare una funzione di guida; e ciò accade a tutti i livelli e in ogni settore della vita associata, dalla sfera dell’educazione (scuola) a quella dei saperi (scienza), dal magistero delle chiese alla dirigenza politica. Dall’altro, il mancato riconoscimento ab extra porta con sé, in parallelo, il venir meno di un corrispettivo rispecchiamento ab intra: i soggetti che un tempo sarebbero entrati a far parte di gruppi solidali, non si sentono più parte di una vicenda comune, capace di riflettere e di mettere in risalto la propria vocazione personale nella dimensione comunitaria della élite. Non sono spariti gli intellettuali, ma si sono resi invisibili, quando ancora vi siano, i gruppi intellettuali; non sono spariti i politici, ma si sono disarticolati i partiti; non è venuta meno la fede vissuta, ma si è affievolita fino talora ad estinguersi la dimensione ecclesiale. E così accade nelle scuole e nelle università, dove i “maestri” non si rispecchiano più nella istituzione di cui sono parte, che non li riconosce e non li valorizza, e cercano altrove premi individuali alle proprie fatiche e qualità. Se non trovo un riflesso di me nel gruppo di cui faccio parte, esco dal gruppo e lo cerco altrove.
Non sono spariti gli intellettuali, ma si sono resi invisibili, quando ancora vi siano, i gruppi intellettuali; non sono spariti i politici, ma si sono disarticolati i partiti; non è venuta meno la fede vissuta, ma si è affievolita
Dislocazione della politica. Un processo cui sembrano esposte le opinioni pubbliche, o crescenti parti di esse, nel mondo occidentale è la dislocazione della politica in campi che non le sono propri. Penso ad alcune sfere della vita privata e alla tendenza a giuridificare per segmentazione le diverse condizioni dell’umano, parcellizzando diritti universali in diritti specifici per gruppi; e naturalmente alla lettura wokista del passato, che finisce per contrapporre al colonialismo geografico e spaziale dei secoli scorsi un nuovo colonialismo, questa volta nella dimensione del tempo e della storia, annullati nel sogno millenarista di una tremenda tabula rasa. Tutto fa parte del quadro. Se le esperienze totalitarie del Novecento potevano allignare grazie a dispositivi tipici del moderno, attraverso quella che Benjamin chiamava estetizzazione della politica, oggi assistiamo piuttosto a un processo inverso, di politicizzazione dell’estetico (e del simbolico in generale). Ma a forza di sconfinare dal suo dominio, la politica ha lasciato vuoto lo spazio della propria autonomia e della propria funzione, rendendolo permeabile a qualunque avventuriero che indossi la maschera giusta.
Personalismi, populismi, radicalismi. Questo ha determinato da un lato il successo (peraltro spesso effimero) delle leadership individuali, dall’altro l’affermarsi di forze politiche populiste e radicali, caratterizzate talora da una vocazione esplicitamente autoritaria e comunque indifferenti, quando non ostili, alle regole democratiche. La complessità crescente dei problemi unita alla percezione assillante della loro minacciosità è funzione del vantaggio competitivo delle loro promesse, fondate su risposte semplificanti, ma immediatamente comprensibili, che esibiscono spesso un legame forte con la tradizione e con il passato. Né sembra che a favorirne il consenso possa essere chiamato in causa l’invecchiamento della popolazione e il prevalere quantitativo di un elettorato anziano. Nella crisi della politica intesa come partecipazione – così strettamente connessa alla crisi della liberaldemocrazia – sta anche l’atteggiamento di ampi settori delle giovani generazioni, che sembrano guidati meno dal desiderio del nuovo che dal bisogno di essere rassicurati. Se ci contestano, lo fanno con il rancore di chi si sente defraudato di qualcosa, non di chi vuole cambiare le cose. Riappropriazione non novità. Revanche e ressentiment ne orientano l’iniziativa politica, che ne risulta velleitaria e spesso regressiva.
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