Kiran Klaus Patel insegna storia alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. Ha scelto come oggetto di studio il progetto europeo. Il suo è un approccio che non guarda alle vicende diplomatiche, ma piuttosto alla crescita di un’istituzione internazionale divenuta centrale per la vita degli europei ma non nata con l’ambizione di diventare quel che è oggi. Patel è stato ospite dell’Istituto Ciampi e della Scuola Normale nel mese di settembre: gli abbiamo posto alcune domande sulle vicende che ha studiato e sul presente dell’Unione.

MM Perché ha deciso di studiare la storia dell’Ue con un approccio diverso da quello di molti altri storici?

KKP L’Unione europea ha ormai una storia relativamente lunga, eppure gli storici tendono a non occuparsene molto. Penso invece che dovremmo studiare meglio quel percorso; non si tratta solo di discutere dell’oggi, c’è una storia e questa aiuta anche a capire il presente. In secondo luogo, ho ritenuto che ci fossero più modi di guardare a questa vicenda rispetto a quanto fatto finora: non solo una storia delle idee o il focus sulla diplomazia e i negoziati, ma anche capire come questa storia abbia influenzato la vita delle persone.

MM Lei colloca l’esperimento europeo nel contesto, ricordandoci che alla fine della Seconda guerra mondiale c’erano diversi progetti istituzionali multinazionali in competizione e che l’idea originaria non era poi così centrale come è diventata in seguito. Che cosa ha reso un successo questo progetto regionale relativamente piccolo?

KKP L’Unione europea è diventata così importante che tendiamo a proiettare l’idea che ne abbiamo oggi – che questa ci piaccia o meno – nel passato. Si dimentica quanto piccola e fragile fosse questa istituzione all’inizio. La storia avrebbe potuto facilmente prendere un’altra direzione. Come mai tra i molti forum internazionali creati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, proprio questo è diventato sempre più importante? Penso che ci siano tre ragioni, oltre alle coincidenze, alla fortuna e alle circostanze. Questa organizzazione rispetto ad altre aveva e ha un "Dna economico" che la rendeva meno problematica di altre. Un esempio è il Consiglio d’Europa, che si occupava anche di diritti umani e cultura, cose spesso considerate come riserva di caccia degli Stati nazionali. Gli interventi in ambito economico della Comunità economica europea si potevano presentare come strumenti per aumentare la prosperità o misure tecniche che non minavano la sovranità nazionale. Questo è stato spesso il modus operandi dell’integrazione europea: utilizzare strumenti economici anche per fini politici, il che ha portato a un aumento delle competenze e dei poteri del progetto europeo.

Il secondo punto è che il diritto europeo è una fonte di diritto più stringente rispetto alle normali organizzazioni internazionali – e in questo caso è stato un processo, poiché non era nei trattati originali. Ciò ha reso più facile per la Comunità europea acquisire potere e centralità rispetto al Consiglio d’Europa o all’Ocse, ad esempio quando era necessario affrontare questioni che richiedevano regolamentazioni internazionali come i satelliti o le politiche ambientali. Il terzo punto riguarda le risorse (la Cee aveva un bilancio che poteva essere utilizzato non solo per il funzionamento dell’istituzione): poteva allocarne verso nuovi ambiti, aumentando così di volta in volta le proprie competenze.

MM In un suo testo recente si occupa del tema della giustizia sociale. La Comunità scelse di non intraprendere la strada della redistribuzione, come mai?

KKP La mia tesi in materia di giustizia sociale è che questa è stata messa in agenda ma in un modo molto diverso da quello che ci si aspetterebbe quando si considera il tema. Nonostante socialdemocratici e sindacati spingessero affinché la Comunità avesse una dimensione più redistributiva, non è andata così. L’idea era che fosse la logica del mercato a dover prevalere, si pensava che l’aumento della produttività avrebbe fatto crescere la produzione e tutti ne avrebbero beneficiato. Un approccio sviluppato per la prima volta a livello dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) negli anni Trenta. Nel Dopoguerra erano principalmente democristiani e moderati a governare negli Stati membri e questa idea era meno controversa di quella della redistribuzione. Il Welfare State nazionale in espansione era poi visto come parte cruciale della legittimazione dei governi e per questo si ritenne che dovesse rimanere nelle mani dei politici nazionali. Anche per una dimensione simbolica: "Ci prendiamo cura di voi". Se vogliamo, abbiamo assistito a un compromesso che prevedeva una divisione del lavoro: la dimensione internazionale doveva essere guidata dal mercato e dalla Comunità europea, mentre a livello nazionale sarebbe stata introdotta o aumentata una certa dimensione redistributiva.

Parallelamente, però, ci sono interventi come quelli della Politica agricola comune (Pac), serviti ad attutire l’impatto della trasformazione del settore agricolo (fertilizzanti e macchine) sul tessuto rurale europeo, su un modo di vivere che aveva plasmato l’Europa per generazioni e secoli e che era minacciato. La politica europea venne accolta con proteste dagli agricoltori. Ma senza quella politica l’impatto della trasformazione, in particolare in alcuni Paesi, avrebbe avuto conseguenze molto più negative, dal momento che gli Stati nazionali non avevano le risorse per attutirlo.

La Pac aveva come obiettivo quello di tutelare quella popolazione particolarmente cara alla parte politica cristiano-democratica. Al contrario, non si immaginò una politica comune per il tessile, settore anch’esso sotto forte pressione. In quel caso la forza lavoro era spesso composta da donne, lavoratrici part-time e non necessariamente politicamente conservatrici come lo erano gli agricoltori.

MM L’idea di implementare strumenti di Welfare a livello europeo, lei scrive, avrebbe indebolito i governi nazionali e per questo ci fu una resistenza. Tuttavia, negli anni le nazioni hanno ceduto sovranità all’Ue in materia di bilancio. I governi cedono strumenti per governare l’economia, ma devono rispondere ai cittadini sulla qualità e quantità dei servizi sociali e sussidi.

KKP Esiste un problema di cessione di potere in direzione dell’Unione, senza che questo riguardi molto la dimensione sociale. È molto interessante quello che è successo con la crisi dell’euro e poi la pandemia e la guerra in Ucraina. Da un lato, abbiamo visto l’imposizione di misure di austerità che dimostrano quanto l’Ue sia diventata importante e quanto possano essere dirompenti le sue scelte per il tessuto sociale di un Paese – come nel caso della Grecia. Il taglio delle pensioni, per fare un solo esempio, è stato dannoso per le persone e ha ovviamente scatenato resistenza nei confronti delle politiche europee. Nel 2020 abbiamo invece visto il Next Generation Eu, che è il primo caso in cui l’Ue stessa ha accettato di indebitarsi e di utilizzare queste risorse per aiutare le società a superare gli effetti della crisi. Ciò che trovo interessante e che rafforza l’argomento che ho usato sopra è che permane questa logica economica: le misure relative all’assistenza sanitaria sono investimenti di denaro nei singoli Paesi per superare la crisi, non l’adozione di strumenti sovranazionali. Comunque sia, si tratta di un fatto nuovo: è stato un caso isolato o un’apertura a un approccio più sociale e solidale tra gli Stati membri? È molto chiaro che alcuni Paesi detestano questa idea mentre altri sarebbero alquanto favorevoli. Il rapporto Draghi contiene molti messaggi diversi. È stato interessante seguire il dibattito tedesco quando è stato pubblicato – almeno per i pochi media di qualità che se ne sono occupati. Alcuni lo hanno criticato in modo sostanziale, considerandolo il prossimo passo verso il debito e quindi qualcosa a cui la Germania e altri Stati “frugali” dovrebbero resistere. Altri sono stati più equilibrati e hanno sottolineato le molte altre misure contenute nel rapporto, come la riduzione della burocrazia. Quest’ultima trova molto sostegno in Germania, ma se il rapporto Draghi sarà visto come un invito a fare debito Ue, temo che torneremo ai dibattiti degli anni 2010 – solo che ora diventeranno ancora più tossici. Come che sia, una discussione è in corso e sarà tra quelle chiave che la nuova commissione von der Leyen si troverà davanti.

Da storico sono anche curioso di capire, una volta che le fonti saranno pubbliche, come mai Angela Merkel abbia accettato un approccio che ha sempre fortemente contrastato. Probabilmente la spiegazione risiede nella paura di un possibile crollo dell’intero mercato unico europeo.

MM Una domanda chiave, lei dice, per i prossimi anni. I segnali non sono incoraggianti per coloro che sono a favore di maggiore solidarietà…

KKP Dal 2020 in poi, le forze nazionaliste e populiste sono diventate più forti e l’Ue ha mostrato meno solidarietà interna, in particolare sulla questione dei richiedenti asilo e dei migranti. La Germania spesso si percepisce come un Paese favorevole a una maggiore integrazione europea, ma quello che stiamo osservando in questo momento è un approccio molto problematico alla questione dell’asilo. La decisione di chiudere le frontiere e aumentare i controlli mette in discussione alcuni dei principi fondamentali dell’integrazione europea: ci sono pochi dubbi sulle conseguenze in termini di ingiustizie del regime di Dublino, che ha fatto sì che i Paesi di confine con il resto del mondo dovessero sopportare il peso delle persone che arrivano in Europa. Ora l’ordine del discorso sembra essere: “Che gli altri Paesi si occupino dei loro problemi, poiché noi abbiamo il nostro con l’estrema destra populista”. È una discussione problematica in cui manca anche l’idea di solidarietà europea e che potrebbe ritorcersi contro la Germania e il suo ruolo in Europa. Ci sono forze sociali in tutti gli Stati membri che sfidano le idee su cui si è basato il progetto europeo. Non si tratta di qualcosa di concreto o specifico, ma piuttosto della cultura dell’integrazione europea basata sul compromesso, in cui non vince nessuno, ma occorre trovare una soluzione che vada bene a tutti. È il messaggio della prima generazione di politici a essere minacciato. I primi commissari economici europei erano persone che avevano un passato nella Wehrmacht nazista, nella Resistenza e come lavoratori schiavi sotto il regime nazista. Tutti avevano imparato la lezione dalla guerra: dobbiamo fare compromessi e superare le differenze storiche per costruire qualcosa insieme. Penso che quello spirito sia qualcosa che manca sempre di più.

MM Dal 2013, e attraverso una serie di crisi, l’Ue ha ampliato il suo ambito di azione e potere. Non c’è un problema riguardo a una costruzione storicamente data che è cresciuta troppo senza testare la sua credibilità in modo democratico? Questa crescente importanza è guidata dal potere burocratico (e politico) a Bruxelles o è piuttosto un progetto politico spinto dalle nazioni? E possiamo dire che questa mancanza di democrazia, questo potere distante, può anche aiutare a spiegare il successo delle forze populiste anti-europee nelle elezioni?

KKP C’è più di un progetto. Penso che sia utile vedere il progetto europeo come una piattaforma dove vari attori (burocrazie, governi, partiti, organizzazioni della società civile ecc.) spingono e tirano in direzioni diverse, e in alcuni casi ciò porta a un vicolo cieco, mentre in altri porta a nuove politiche istituzionali. Penso che dobbiamo tenere a mente questo quadro complesso per valutare ciò che sta accadendo.

Di nuovo, questo è un progetto senza precedenti, quindi non c’è un modello di cooperazione sovranazionale né un burattinaio nascosto da qualche parte, ma è innegabile che l’acquisizione di poteri, in particolare in questo periodo che chiamiamo di "policrisi", abbia determinato un aumento dell’importanza dell’integrazione europea. Trovo problematico che se ne discuta così poco. Durante la campagna per le europee o il dibattito sulla composizione della Commissione abbiamo assistito a dibattiti nazionali su questioni nazionali. Questa mancanza di discussione europea e i modi in cui si legittimano le politiche, spesso problematici a causa dell’elemento tecnocratico forte nel processo decisionale europeo, non aiutano i cittadini a comprendere le implicazioni delle scelte che vengono fatte.

Una conseguenza delle crisi è che l’elemento tecnocratico è stato rafforzato. Per fare un esempio concreto, le decisioni prese in reazione alla crisi del 2009 erano misure minori, spesso ai margini dei trattati, e non basate su lunghe discussioni pubbliche – del resto non c’era neanche il tempo. Ma anche successivamente non ci fu una vera discussione nelle società europee: "Vogliamo davvero questo? Lo riteniamo appropriato?". Ci troviamo in una situazione simile a quella che abbiamo affrontato negli anni Settanta, quando il mondo era anch’esso in trasformazione e la reazione della Comunità europea fu di tipo bricolage, improvvisazioni al di fuori dei trattati solo per fare progressi. È ciò che abbiamo ora dopo l’Atto unico europeo e il Trattato di Lisbona, dove l’idea era: "Lo risolveremo una volta per tutte con il nostro meraviglioso trattato". La lezione di quegli anni è che non ha funzionato: il meglio che possiamo ottenere sono piccole cose qua e là. Il problema in questo caso è che il processo non è chiaro e non è trasparente, e questo crea varchi per la reazione populista.

MM A proposito di populismi, che cosa pensa della nuova Commissione?

KKP A ogni nuova Commissione corrisponde un rimpasto di potere. Si tratta di processi complessi in cui bisogna tenere conto di molti fattori: portafogli, partiti politici, peso dei Paesi, genere, risultati elettorali. La nuova Commissione è un buon esempio di come abbiano giocato i nuovi equilibri: la frammentazione dei portafogli aumenta i poteri di von der Leyen; si tratta di una strategia chiara. Questioni importanti andranno nelle mani di politici della destra populista. Di solito i cambiamenti in Europa non sono eclatanti, quindi siamo di fronte a spostamenti incrementali che potrebbero portare a problemi più avanti.