“La Rai, Radiotelevisione Italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive. Le maggiori trasmissioni dell’odierno programma sono: ore 11, telecronaca dell’inaugurazione degli studi di Milano e dei trasmettitori di Torino e di Roma […]. Signore e signori, buon divertimento!”. Con queste parole, nella mattina di domenica 3 gennaio 1954, l’annunciatrice Fulvia Colombo apre ufficialmente la storia della televisione in Italia – il filmato, ritenuto allora di importanza non fondamentale, non è stato conservato, ma dieci anni dopo, per un suo documentario, Ugo Zatterin ha riportato Colombo davanti alle telecamere per pronunciare ancora lo stesso messaggio (un re-enactment, diremmo oggi).
Settant’anni fa, così, cominciavano sia la programmazione ufficiale della tv italiana sia il secondo binario del servizio pubblico nazionale di broadcasting, destinato però molto presto a primeggiare sulla radio, e poi, circa vent’anni dopo, a essere affiancato anche da un’offerta privata, commerciale. Al netto delle retoriche e dei festeggiamenti, la data del 3 gennaio ’54 è in buona parte una convenzione. Da un lato, l’avventura televisiva italiana comincia ben prima: già nel ventennio fascista si svolgono i primi esperimenti romani, nella corsa mondiale fatta di invenzioni e tentativi; le cose diventano serie nel Secondo dopoguerra, in particolare a partire dal 1949, quando un gruppo di tecnici e di creativi comincia a impratichirsi delle tecniche (e tattiche) di ripresa nelle soffitte della sede Rai di via Montebello a Torino, e alcuni fortunati spettatori vedono i primi televisori, e i primissimi programmi, nelle vetrine del centro; e già nei mesi che precedono il lancio partono il telegiornale, i primi giochi e varietà, un bel po’ di teatro, Arrivi e partenze con l’ancora sconosciuto Mike Bongiorno, La domenica sportiva, i tasselli principali di un palinsesto che proseguirà, una volta ufficializzato, senza particolari scossoni e differenze.
Dall’altro, quando le autorità tagliano nastri inaugurando studi e trasmettitori, la televisione è ancora faccenda di pochi: il segnale non copre tutto il territorio nazionale, escludendo il sud e le isole, mentre è soltanto la medio-alta borghesia delle grandi città a potersi permettere di acquistare i costosi apparecchi tv; ci vorrà del tempo perché il desiderio si diffonda veloce, prima affollando bar e cinema per assistere collettivamente alle puntate di Lascia o raddoppia? e agli eventi e programmi più popolari, poi pian piano facendo spazio al televisore nel salotto di quasi ogni casa, grazie alla rapida diminuzione dei costi, al consolidamento dell’offerta e alle nuove disponibilità del boom economico; nel 1961, quando le reti Rai diventano due, la copertura nazionale è pressoché completa e la centralità della tv è conquistata. Anche se i processi storici sono più articolati e si sviluppano in tempi distesi, ciò non toglie valore agli inizi puntuali, per quanto simbolici.
La tv, in Italia come in tutta Europa, nasce come monopolio statale, così da usare con cautela un mezzo che si capisce subito sarà potente e popolare
Lungo i suoi settant’anni di evoluzione, la televisione italiana è cambiata molto, moltissimo. Sono cambiate le tecnologie: dall’immagine piccola e tremolante all’alta definizione in wide screen, dal bianco e nero al colore, dal canale unico alla decina di emittenti analogiche e poi alle centinaia di reti digitali, dall’etere al satellite e alla fibra ottica, dal telecomando al decoder, dal monoscopio alla pay tv e poi alle piattaforme non lineari. Sono cambiati i programmi, i generi, i volti del piccolo schermo: quiz, inchieste, varietà, sceneggiati, rubriche, format, sitcom, soap opera, reality e talent show, programmi di cucina, factual, serie complesse, guilty pleasure; e ancora Mario Riva, Corrado, Mina, Sandra e Raimondo, Pippo e Raffaella, Enzo Tortora, Santoro, Frizzi e Carlucci, Fiorello e De Filippi, Paolo Bonolis, Conti, Gerry Scotti e Amadeus (per molti, basta il nome proprio). La tv, in Italia come in tutta Europa, nasce come monopolio statale, così da usare con cautela un mezzo che si capisce subito sarà potente e popolare, e lungo la strada si aggiungono le necessità commerciali (già nel 1957 comincia Carosello), la concorrenza privata (nel 1980 Silvio Berlusconi lancia Canale 5), la tv premium in abbonamento (nel 2003 parte Sky Italia), l’on demand (consacrato nel 2015 da Netflix).
C’è chi rimpiange la tv pedagogica, capace di trovare il giusto equilibrio tra le tre necessità dell’informazione, dell’educazione e dell’intrattenimento, dimenticandosi però, nelle zone d’ombra della memoria, della scarsità dell’offerta e del complessivo sguardo paternalista; e c’è chi si è immerso, o è stato travolto, dall’abbondanza colorata degli ultimi decenni, che ha perso il bilancino e asseconda senza freni i desideri, le pulsioni e le passioni degli spettatori, provando in parte a rimediare con una molteplicità di offerte e palinsesti adatti a ogni gusto, ogni interesse, ogni porzione di pubblico.
Anno dopo anno, decennio dopo decennio, la televisione italiana si è intrecciata a doppio e triplo filo con le parallele evoluzioni culturali, sociali e politiche del Paese: sia le cariche dirigenziali della Rai sia le edizioni del Festival di Sanremo sono il più efficace termometro, dichiarato o meno, di quanto è accaduto o di quanto sta per accadere; e non si contano, in questa storia, le volte in cui il piccolo schermo è stato specchio (fedele o deformante) di speranze e di furori, collettore di ambizioni e di ansie, anticipatore e amplificatore, dalla contestazione all’austerity, dal muro caduto a Mani pulite, dall’11 settembre al lockdown. È come se il continuo e confuso scorrere del flusso dei programmi, sempre acceso e disponibile, fatto di tanti vari materiali giustapposti, nei decenni abbia trovato sponda in una trasformazione del medium altrettanto inesauribile e altrettanto caotica.
Nonostante i tanti annunci di morte, e in sostanza indifferente alle alternative che si sono via via aggiunte, la televisione è diventata smart, convergente, e intanto tutti gli altri media diventavano, anche, e talora soprattutto, televisione
In mezzo ai molti cambiamenti di settant’anni di tv italiana, alcune cose sono però rimaste costanti. La centralità del piccolo schermo all’interno del sistema dei media nazionale, e la conseguente pervasività della sua influenza su molta parte della nostra vita associata, pur tra mille tempeste, è stabile da quando l’apparecchio ha scalzato la radio dal salotto di casa ed è entrato nelle abitudini quotidiane di milioni di persone. Nonostante i tanti annunci di morte, e in sostanza indifferente alle alternative che si sono via via aggiunte, la televisione è diventata smart, convergente, e intanto tutti gli altri media (dai giornali al cinema, dalla musica a TikTok) diventavano, anche, e talora soprattutto, televisione. Sono intatte, poi, la capacità e possibilità di guardare lontano – etimologicamente impressa in quello strano ibrido di greco, tele, e di latino, visione.
Sette decenni dopo la forza della tv sta ancora tutta in due etichette che la Rai degli anni Cinquanta aveva adottato per farla conoscere agli italiani: è “finestra sul mondo”, strumento che consente di vedere le cose dispiegarsi nel momento in cui accadono, in diretta, e gettare lo sguardo altrove, in spazi anche distanti; ed è “teatro familiare”, opportunità di accedere a rappresentazioni e spettacoli senza neppure uscire di casa, senza pagare il biglietto, con la comodità e la ricchezza di un enorme cartellone di cultura, di intrattenimento, di modi di passare (o, perché no, di sprecare) il proprio tempo. Ancora, e infine, a non essere cambiata nel tempo è la natura profondamente popolare, larga, trasversale, usando il linguaggio del medium “generalista”, della televisione: un mezzo di comunicazione che si rivolge a tutti quanti insieme, che non vuole e non deve escludere nessuno, che sincronizza una comunità ampia e distante intorno a un nucleo condiviso. E così, nonostante stereotipi e diffidenze, si rivela un mezzo compiutamente democratico, nel senso più alto. Come ha sintetizzato il drammaturgo Sergio Pugliese, tra i padri fondatori della tv italiana, responsabile delle sperimentazioni e poi direttore dei programmi televisivi, nel volume celebrativo pubblicato nel 1964, in occasione dei festeggiamenti per il primo decennale:
“La massa, la grande massa, capì subito che con la tv era nata una forma di spettacolo, una fonte di informazione a lei congeniale, a portata di mano, domestica e familiare, che la metteva a contatto, nelle campagne, nei borghi sperduti, nei quartieri popolari delle grandi città, nelle polverose periferie, con la vita di tutti, con gli aspetti più vari […]. Numerosi intellettuali ignorano il fenomeno televisivo. Non guardano la tv, ma ne parlano male lo stesso. Non possono approvare – per definizione – ciò che interessa, commuove, talvolta esalta milioni e milioni di individui […]. Esistono masse che vogliono apprendere, conoscere, divertirsi, magari con una partita di calcio giocata davanti a centomila spettatori nello stadio e a venti milioni davanti agli schermi della tv, o ascoltare la canzone che è stata incisa e venduta in un milione di dischi. Con questo enorme pubblico non si può giocare a rimpiattino, confondere il gusto con la raffinatezza, la fantasia con l’avanguardia. [… Serve quindi] convogliare sempre più grandi masse di pubblico verso forme spettacolari e di documentazione sempre migliori, senza pretendere che da un giorno all’altro la gente possa preferire il difficile al facile”.
Dal 3 gennaio 1954, la televisione prova, e spesso riesce, a parlare a tutti, e a tutti insieme. E per questo è stata ed è anche uno strumento formidabile per aiutarci a costruire una relazione con quello che ci è distante, letteralmente e metaforicamente, e per metterci nei panni dell’altro da noi. Valeva all’inizio di questa storia, quando serviva intessere, mostrare e diffondere una lingua, una cultura, una sensibilità nazionali in un territorio da secoli frammentato e diviso. E vale ancora oggi, per noi immersi in selezionatissime bolle di contenuti e relazioni digitali, adatte a tenerci lontano da ciò che non incontra il nostro gusto o a scontrarci con chi non ha le nostre idee, quando la televisione ormai settantenne finisce per diventare l’appiglio che ci aiuta a ritrovare almeno qualche frammento di discorso congiunto, di terreno comune.
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