Auspicare una «una rapida risposta che normi e regolarizzi queste forme antiche e contemporanee del lavoro precario», come chiosa Luisa Leonini in un suo recente intervento, non dovrebbe significare nostalgia dei cancellati voucher, come potrebbe invece apparire dall’incipit dell’articolo.
I voucher non sono stati un strumento di emersione del lavoro irregolare, al contrario sono stati dei veri e propri promotori di illegalità. Senza percorrere tutta la strada dal d. lgs 276 del 2003 – istitutivo della regolamentazione delle cosiddette «prestazioni occasionali di tipo accessorio» – in avanti, è con la completa liberalizzazione della legge Fornero del 2012 e del d. lgs 81/2015 che il fenomeno si è presentato in tutta la sua potenzialità, che non è esagerato definire eversiva.
Il paradigma iniziale era chiaro: per tipo di attività – ipotesi di collaborazioni davvero minori e occasionali a famiglie, enti pubblici e non profit – limiti soggettivi – studenti, pensionati, casalinghe (sic), disoccupati di lungo periodo – e limiti quantitativi – trenta giorni e tremila euro nell’anno solare – pur essendo criticabile l’incerta natura del buono lavoro (mezzo di pagamento o rapporto lavorativo?) esso conservava una sorta di ragionevole utilità per petits boulots, che altrimenti erano sempre stati «in nero».
È con la possibilità di farvi ricorso concessa alle imprese – e se ne sono avvalse principalmente le medio piccole nei settori del commercio, della ristorazione, del turismo et similia – che si è raggiunto davvero il limite eversivo del sistema lavoristico di un Paese civile. Non è leggenda metropolitana ma sconcertante realtà che a otto, nove, o quante comunque necessarie ore di lavoro giornaliero corrispondessero uno o due voucher – per mettersi al riparo di improbabili ispezioni o dalle conseguenze di infortuni – e il resto ancora e sempre «in nero», con il sicuro paravento del buono.
Ma se questa appena narrata è l’eversione nei fatti, solo timidamente corretta dalla «tracciabilità» introdotta nello scorso autunno, è nel diritto di comprare il lavoro a ore, singola ora per singola ora, che sta l’eversione di principi costituzionali di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), di retribuzione proporzionata e in ogni caso sufficiente (art. 36), di limiti alla durata della giornata lavorativa (art. 36), di possibilità di predisporsi un sufficiente requisito previdenziale (art. 38).
Si badi bene: di comprare il lavoro direttamente dal lavoratore che lo presta. Diversa è la possibilità, conosciuta in altri ordinamenti, di acquistare ore di lavoro – per le situazioni in cui non si può fare altrimenti, come quelle di famiglia ecc. richiamate sopra – da un’organizzazione che garantisca ai lavoratori la dignità della propria condizione e alle situazioni meritevoli la soddisfazione del bisogno.
Non si tratta di non riconoscere la necessità per le imprese, soprattutto le medio piccole, di affrancarsi da soffocanti burocratismi, di attenuare alcune rigidità del tradizionale modo di impiegare il lavoro dipendente. Non si tratta di non comprendere che anche per un bar o un ristorante o una piccola attività turistica esistono delle flessibilità nella domanda un tempo sconosciute e che richiedono risposte diverse dal passato. Strumenti in questo senso esistono già nel nostro ordinamento, forse si tratta di renderli più accessibili, non a spese dell’impresa ma nemmeno a spese del lavoro. A leggere smodate reazioni al decreto governativo viene in mente la frase anticipatrice di alcuni anni orsono di un illustre collega: «La flessibilità è come una droga, per quanto la aumenti non basta mai». Non basta mai se ne hai fatto l’unico strumento di contrasto alle difficoltà dell’impresa.
Immediatamente dopo il decreto del governo commentatori di vario rango si sono lanciati a evocare l’esperienza tedesca dei mini Jobs: il vecchio vizio di cercare all’estero soluzioni, spesso – e questo sarebbe il caso – quando gli originali stanno già mostrando la corda. In ogni caso, appare stupefacente la pervicacia nel cercare di continuare a comprimere il costo del lavoro, invocando nel contempo una ripresa della domanda interna.
Si dice che viviamo nell’epoca della «disintermediazione», e i voucher apparterrebbero a questa tendenza: beh, per il lavoro umano questa significa solo entrare del tutto disarmati e indifesi in una competizione selvaggia. Una condizione che neppure la post-modernità può considerare accettabile.
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