Le cose in Italia non vanno bene. E questo se non fosse vero sarebbe niente più che un luogo comune. Ma poiché è molto vero, è quantomeno curioso, per non dire altro, che a quaranta giorni dalle elezioni di tutto si parli fuorché di programmi (di governo, non elettorali). Il che naturalmente non significa che non arrivino proposte, idee, il più delle volte gettate lì, senza troppe verifiche sulle coperture o sugli effetti di sistema, nella speranza di poter raccogliere voti. Tutto questo mentre il debito pubblico lampeggia inesorabile il suo 133%, a ricordarci che la stagione dello spread, parola ignota sino all’estate del 2011 (a novembre di quell’anno toccò i 574 punti ed era sulle prime pagine di tutti i giornali), non è certo superata per sempre.
Eppure, fra i molti temi assenti dalla campagna elettorale, ve ne sarebbe uno da affrontare come emergenza nazionale, da tutte le forze politiche. Neanche i dati arrivati dalla Francia, l’eccezione virtuosa europea grazie ai forti sussidi statali, dove per la prima volta da anni si è scesi sotto la soglia degli 1,9 figli per donna, sono serviti per portare il dibattito pre-elettorale sulla natalità. Si fanno sempre meno figli, e sempre più tardi (nel 2016 l’età media alla nascita del primo figlio è 31 anni; era 28 nel 1995). Continuiamo a essere assai lontani dalla soglia naturale (lo dice la matematica, prima ancora della demografia) dei 2,1 figli che permette a una società di mantenere la propria struttura demografica. In breve di restare in vita. Al di sotto di essa è destinata a estinguersi. E ovviamente più bassa è la media, più rapido è il declino. Così, mentre a politici di primo piano preoccupati che la “razza bianca” possa scomparire a causa dell’invasione di neri, gialli e marroncini, “scappa il lapsus”, non ci accorgiamo che il dato italiano è ormai da anni stabilmente sotto la media degli 1,4 figli per donna, giunto ormai a 1,34 (nel 2016), tornato a calare a partire dal 2011 dopo essersi ripreso a causa dello spostamento in avanti di molte donne della decisione di avere il primo figlio, da un lato, e, soprattutto, del contributo fondamentale delle donne straniere. Senza dimenticare che, poco alla volta, proprio le donne straniere si allontaneranno sempre più dagli standard riproduttivi dei Paesi di origine per avvicinarsi progressivamente a quelli del Paese di immigrazione. Certo, è tutta l’Europa che invecchia, ma l’Italia è tra i Paesi che in questo senso danno il contributo più rilevante. Ne nascono in numero insufficiente anche nelle società che godono di buone politiche attive per la famiglia, e non c’è dunque da stupirsi che dei 5 milioni e 63 mila bambini nati in tutta Europa nel 2015, l’Italia ne abbia avuti soltanto 485.800 (a fronte degli 800 mila della Francia, ad esempio, o del Regno Unito, poco meno: dati Eurostat).
Mancano politiche per la famiglia, a cominciare da decenti politiche per le nascite. Le uniche che vengono spacciate per tali sono in realtà “bonus” che hanno l’aria di gettoni elettorali, distribuiti a pioggia, indipendentemente dal reddito di chi li riceve. Misure squilibrate e del tutto insufficienti.
Era il 1999 quando il Mulino pubblicò alcuni interventi tesi a discutere “politiche amichevoli verso le nascite”. Sociologi e demografi segnalavano con allarme i dati sulla denatalità, suggerendo misure a sostegno della famiglia. Misure diventate sempre più urgenti e che, va da sé, dovrebbero accompagnare i genitori almeno sino alla maggiore età dei figli, con un assegno periodico di tipo universale, seppure inversamente proporzionale al crescere del reddito. Difficile che un “bonus bebè” possa aiutare significativamente i potenziali genitori a invertire la tendenza, e che la natalità in Italia possa tornare a crescere. Per di più mentre i servizi per la prima infanzia, in alcune regioni in particolare, specie nel Mezzogiorno, continuano a essere insufficienti. Mentre si riduce il tempo pieno nelle scuole e la gestione del tempo libero, non solo in estate, è molte volte dipendente dal reddito spendibile da parte della famiglia. Nel frattempo, i contesti sociali e culturali in cui una famiglia con figli piccoli deve muoversi continuano a essere troppo spesso respingenti.
Se affianchiamo la povertà di politiche per le nascite e per la famiglia alle difficoltà congiunturali che toccano oggi la gran parte delle coppie che vorrebbero, come si dice, appunto, “farsi una famiglia”, non occorre proiettare la vita dei ventenni di oggi a una perigliosa e incerta vecchiaia, in cui sempre più fragile sarà la protezione sociale, per comprendere come l’incertezza renda sempre più difficile e quasi azzardato l’avvio di un nucleo familiare. Nel 2016 le donne senza figli considerate statisticamente in età fertile, in un’età compresa tra i 18 e i 49 anni, hanno rappresentato quasi il 50% in questa fascia di età (circa 5 milioni e mezzo).
Nel frattempo, rilanciamo pure l’idea del ponte sullo Stretto, discutiamo l’abolizione del canone, dimentichiamo di rinnovare le regole che bloccano le retribuzioni degli alti funzionari dello Stato, azzardiamo promesse fantasmagoriche di riforme fiscali e abolizione di imposte. Al resto penseremo - anche male - una volta eletti in Parlamento.
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