Questo articolo fa parte dello speciale Società migranti
I segnali di una perdita di slancio del populismo sovranista ci sono, non solo in Italia. Si vedrà, a partire dalle elezioni presidenziali francesi dell’aprile 2022, quanto questa tendenza sia effettiva, diffusa e persistente. Quel che è certo è che, anche dove il sovranismo perde terreno, lascia dietro di sé alcuni pozzi avvelenati. E forse la sorgente resa più tossica è quella delle politiche migratorie.
Alla radice, vi sono decenni di politicizzazione esasperata e univoca, nel senso della stigmatizzazione securitaria. Ne deriva una polarizzazione fortemente asimmetrica: le forze sovraniste e nativiste continuano a battere ossessivamente sui tasti del controllo e della repressione; i partiti progressisti e la stessa società civile, dal canto loro, sono sempre più schiacciati in un ruolo difensivo, timorosi di ogni iniziativa e apparentemente incapaci di elaborazione strategica.
Il risultato è che il campo delle politiche migratorie è diventato una monocoltura assai poco produttiva. Mentre l’esternalizzazione dei controlli procede inarrestabile, fagocitando altre dimensioni della politica estera, le leve tradizionali della politica migratoria sono in stato di abbandono. Comprensibilmente sospesa dopo la doppia recessione del 2008-2011, la politica degli ingressi programmati per lavoro, già inefficiente in precedenza, non è mai stata di fatto riattivata. Quanto alla politica di integrazione, impostata alla fine degli anni Novanta, si è progressivamente rattrappita, fino a ridursi a uno stentato progettificio alimentato da fondi europei.
La pandemia avrebbe potuto innescare una controtendenza, o perlomeno indurre qualche ripensamento. Da un lato, infatti, essa ha drammaticamente aggravato le disuguaglianze legate all’origine (e al colore della pelle): nel 2020, la povertà assoluta incideva per il 29,3% tra gli stranieri, «solo» per il 7,5% tra gli italiani. Dall’altro, la recessione innescata dalla pandemia ha dato il via a una stagione di investimenti pubblici straordinari, che sta già acutizzando le carenze strutturali di offerta lavorativa in alcuni settori.
Cionostante, sul terreno delle politiche migratorie, i segnali di un’inversione di tendenza non si vedono proprio. Il dibattito in materia rimane confinato in ambiti specialistici, mentre la «grande politica» se ne occupa solo se costretta da fatti di cronaca particolarmente clamorosi. Ma dall’orizzonte strategico del Paese il tema è sparito, tanto che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza non viene neppure menzionato.
Tuttavia, per un Paese in recessione demografica e con un tessuto produttivo ancora fortemente labour-intensive, un certo livello di immigrazione rimane una necessità strutturale. Affidarsi solo alle braccia di risulta dei richiedenti asilo per l’agricoltura e al «badantato» come stampella di un Welfare inadeguato sono soluzioni a dir poco subottimali, non compatibili con ambizioni di crescita sostenibile.
L’abbandono della politiche migratorie si è accompagnato a una crescente incuria verso l’architettura istituzionale del Paese, profondamente rivista senza riflettere abbastanza sulle conseguenze delle scelte fatte
Anche se le politiche di integrazione riprendessero slancio, difficilmente risulterebbero efficaci. L’abbandono della politiche migratorie si è infatti accompagnato a una crescente incuria verso l’architettura istituzionale del Paese, profondamente rivista nel corso degli anni Duemila ma senza riflettere abbastanza sulle conseguenze delle scelte fatte.
La riforma del Titolo V fu la prima picconata alle politiche di integrazione. La cosiddetta Legge Turco-Napolitano (L. 40/1998) aveva assegnato alle Regioni risorse e compiti di programmazione sull’integrazione, demandando l’esecuzione agli enti locali. Ma questo impianto crollò con la riforma costituzionale del 2001 e il successivo assorbimento (2003) del Fondo nazionale per le Politiche di integrazione nel Fondo nazionale per le Politiche sociali, a sua volta fortemente ridotto. Da allora, se e come promuovere l’integrazione è una decisione in capo alle Regioni, la maggior parte delle quali ha volentieri accantonato la questione, limitandosi a sporadici atti simbolici.
La programmazione nazionale sull’integrazione si è ridotta a quella legata ai fondi europei sull’immigrazione e l’asilo, come richiesto dall’Ue. Per quanto riguarda i titolari di protezione internazionale, dopo un Piano nazionale (2017) rimasto inattuato, si è assistito a una sorta di devolution verso l’alto. L’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) ha assunto un ruolo chiave in fase di attuazione, mediante quattro «antenne» distribuite in altrettante regioni pilota. Per quanto gli sforzi dell’Unhcr abbiano prodotto risultati apprezzabili, l’impresa è apparsa fin da subito donchisciottesca e questo Piano è sostanzialmente rimasto sulla carta.
Un ulteriore colpo alle politiche di integrazione è stato inferto dalla Riforma Delrio (L. 56/2014), che ha radicalmente ridimensionato le Province e azzoppato le Città metropolitane. Il coordinamento è ora affidato alle Unioni di Comuni, formate dalle amministrazioni locali su base volontaria e seguendo le consonanze politiche più che i contorni dei bacini territoriali e sociali. Queste strutture di raccordo sono dotate di mezzi e visibilità scarsissimi, tanto che la maggior parte dei cittadini ne ignora l’esistenza.
In un Paese dove più della metà del territorio è governato dai sindaci dei piccoli comuni, indebolire il livello istituzionale intermedio tra questi e le Regioni significa minare la governance strategica di buona parte dell’Italia. Le Regioni, infatti, sono troppo grandi per sapere cosa accade sui territori e i Comuni troppo piccoli per sviluppare economie di scala e risposte di sistema.
Sul fronte delle migrazioni, questo è emerso in maniera impietosa a seguito della redistribuzione dei richiedenti asilo su tutto il territorio nazionale, sancita dall'intesa tra governo, Regioni ed Enti locali per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini stranieri nel luglio 2014, con i Comuni lasciati soli a inventarsi la maniera di integrare gli stranieri portati dalla Prefetture sul loro territorio. Che a emergere siano stati problemi complessi o soluzioni brillanti, sono rimaste questioni locali, per lo più invisibili ai livelli istituzionali superiori, che sui temi migratori decidono senza conoscere ciò che accade sui territori, perlopiù accodandosi a media e sondaggi. Si è rotta cioè la catena di trasmissione che va dal governo ai Comuni (e viceversa) e, quel che è peggio, nessuno pare preoccuparsene.
Va ripristinato un dialogo tra i diversi livelli di governo e tra soggetti pubblici e privati: solo così, forse, potrà ripartire una strategia mirata di (re)integrazione di centinaia di migliaia di migranti sempre più marginali
È in questo quadro che si parla di upskilling e reskilling di chi è entrato tramite il canale dell’asilo, per evitarne la marginalizzazione e disporre della manodopera adeguata a sostenere la crescita innescata dai fondi di NextGenerationEU. Si trascurano però del tutto alcuni dettagli decisivi: per esempio il fatto che queste persone cercano lavoro avendo come titoli di soggiorno cedolini logori, rinnovati nel tempo da timbri sbiaditi, e anche per questo vengono guardati con comprensibile diffidenza dai consulenti del lavoro e dalle aziende. Ancora più importante, si ignora il fatto che le imprese lamentano, più che le scarse competenze di questi migranti, la poca conoscenza della lingua italiana, su cui mancano ancora risposte di sistema. Si trascura come, in assenza di un conto corrente su cui versare lo stipendio, firmare un regolare contratto di lavoro può essere problematico.
Per superare tutti questi ostacoli, talvolta minuti ma di fatto insormontabili, è essenziale ripristinare un dialogo strutturato tra i diversi livelli di governo e tra soggetti pubblici e privati. Solo così, una strategia mirata di (re)integrazione di centinaia di migliaia di migranti sempre più marginali, se mai ripartirà, eviterà di farlo con piedi di argilla.
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