Questo articolo fa parte dello speciale Società migranti
In occasione della Conferenza sul futuro della Libia ospitata dalla Francia lo scorso 12 novembre, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha rilanciato un tema caro a molti altri governi in passato. Sul banco degli imputati l’Unione europea (Ue), accusata di contravvenire al principio di solidarietà, sancito dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento della Unione europea, lasciando l’Italia da sola a gestire la «situazione insostenibile» creata dai continui sbarchi di migranti.
Con tempismo perfetto, il quotidiano «la Repubblica» denunciava il fallimento dell’accordo per la redistribuzione degli sbarchi raggiunto a Malta nel 2019, sottolineando come solo una percentuale irrisoria dei migranti sbarcati nel nostro Paese negli ultimi due anni, gli anni della pandemia, giova ricordare, siano stati effettivamente ricollocati.
Il problema, com’è noto, risiede nel funzionamento pratico del meccanismo di allocazione delle responsabilità in materia di asilo previsto dal cosiddetto Regolamento Dublino. Il meccanismo è comunemente criticato perché attraverso il criterio del «primo Paese di ingresso irregolare», che di fatto prevale su tutti gli altri criteri di attribuzione della responsabilità previsti, crea una pressione sproporzionata sui Paesi situati lungo le frontiere esterne dell'Ue, dando luogo a una sorta di responsabilità per collocazione geografica.
In risposta alle critiche, la Commissione ha sovente giustificato la necessità di mantenere inalterato tale criterio di allocazione delle responsabilità in quanto esso funziona come uno stimolo a implementare controlli frontalieri più efficaci (si veda ad esempio il paragrafo 3.1 della Proposta di Regolamento del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo). Le evidenze degli ultimi vent'anni sembrano tuttavia suggerire che esso abbia piuttosto creato un perverso incentivo alla cattiva implementazione dell’acquis europeo in materia di asilo o, peggio, alla violazione degli obblighi in materia di ricerca e soccorso e del principio di non respingimento.
Il criterio del "primo Paese di ingresso irregolare", che di fatto prevale su tutti gli altri criteri di attribuzione della responsabilità previsti, crea una pressione sproporzionata sui Paesi situati lungo le frontiere esterne dell'Ue
Riformare Dublino? Il tema della necessità di introdurre adeguati correttivi agli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità è dunque antico, anche se fino al 2015 la solidarietà ai Paesi maggiormente esposti all’arrivo non autorizzato di migranti e richiedenti asilo è stata offerta esclusivamente sotto forma di supporto tecnico operativo. Le decisioni del Consiglio del 2015 sono state le prime specifiche misure di ricollocamento adottate a beneficio dei sovraccarichi sistemi di accoglienza dei Paesi situati lungo la frontiera meridionale dell'Ue dopo anni di discussioni su come dare sostanza al principio di solidarietà.
Secondo il giudizio di alcuni, l’implementazione di tali misure è stata tutt’altro che un successo. Le decisioni del Consiglio del 2015 prevedevano il ricollocamento di 160 mila richiedenti asilo entro il 2017, tuttavia nel periodo 2015-2017 solo 21.999 richiedenti sono stati ricollocati dalla Grecia e altri 12.713 dall’Italia. Nel medesimo periodo, 109.760 domande d’asilo di prima istanza sono state registrate in Grecia e 251.810 in Italia. Ciò significa che solo il 12% dei richiedenti asilo è stato ricollocato dalla Grecia e il 9% dall’Italia.
Successivamente è stato adottato un approccio più flessibile, basato su negoziazioni ad hoc svolte a livello intergovernativo nell’immediatezza degli sbarchi e suggellato dalla menzionata Dichiarazione di Malta del 2019. Tale approccio è stato criticato per la sua imprevedibilità e l’impatto sui diritti dei migranti, il cui sbarco veniva spesso ritardato in attesa della conclusione del negoziato sul ricollocamento. Ma anche i risultati prodotti in termini di ricollocamenti sono stati deludenti. Per restare al periodo precedente alla pandemia, nel 2019 sono stati ricollocati circa 2.000 migranti sbarcati in Italia e Malta a seguito di operazioni di ricerca e soccorso, ciò significa il 29% dei 7.000 soccorsi nel Mediterraneo centrale e fatti sbarcare sul territorio dei due Paesi membri, ma il 14% del numero complessivo degli arrivi via mare registrati nel 2019 lungo quella rotta.
Dopo il tentativo fallito di riformare il Regolamento Dublino superando il criterio del Paese di primo ingresso irregolare, nel settembre 2020 la Commissione ha proposto un ambizioso pacchetto di riforme, comunemente conosciuto come nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo. Il Patto propone un approccio che, nelle parole del presidente von der Leyen, tiene tutti i «legittimi interessi» in considerazione, cercando un equilibrio tra «responsabilità e solidarietà».
L’idea, in breve, è che mentre alcuni Paesi membri devono far fronte alla necessità di gestire arrivi di massa via mare o via terra, con conseguente sovraccarico del loro sistema di prima accoglienza, altri Paesi membri si confrontano con un significativo numero di «movimenti secondari» di migranti che lasciano il Paese di primo ingresso per presentare la loro domanda d’asilo in un altro Paese membro, con conseguente sovraccarico del loro sistema d’asilo (si vedano la Comunicazione della Commissione Un nuovo patto sulla migrazione e l'asilo, p. 1 e la Proposta modificata di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/Ue, p. 2). Trovare un equilibrio tra responsabilità e solidarietà significa, nell’ottica della Commissione, riformare il sistema di gestione della prima accoglienza nei Paesi di primo ingresso Ue in modo da prevenire i «movimenti secondari», inserendo al contempo una serie di correttivi agli ordinari meccanismi di attribuzione della responsabilità, che dovrebbero trasformare la solidarietà in una componente strutturale del sistema.
In quest’ottica, il Patto europeo su migrazioni e asilo propone l’istituzione di un meccanismo in base al quale la maggior parte dei richiedenti asilo in arrivo sarà trattenuto nei pressi dei luoghi di sbarco e assoggettato alle nuove procedure d’asilo «di frontiera», senza essere ufficialmente ammesso sul territorio Ue. A ciò si aggiungono una serie di riforme mirate al sistema di «ripresa in carico» da parte del Paese di primo ingresso, che dovrebbero limitare l’impatto dei «movimenti secondari» sui sistemi d’asilo dei Paesi geograficamente più lontani dalle frontiere esterne.
Trovare un equilibrio tra responsabilità e solidarietà significa, nell’ottica della Commissione, riformare il sistema di gestione della prima accoglienza nei Paesi di primo ingresso Ue in modo da prevenire i "movimenti secondari"
In definitiva, non solo il Patto europeo su migrazioni e asilo lascia sostanzialmente invariate le attuali regole sull’attribuzione della responsabilità, e in particolare il famigerato criterio del primo Paese di ingresso irregolare, ma la maggior parte delle modifiche proposte al vecchio Regolamento Dublino amplificheranno ulteriormente la responsabilità dei Paesi di primo ingresso.
Per compensare l’effetto che tali proposte potrebbero avere sui Paesi frontalieri, la Commissione propone come accennato un complessivo ridisegno dei meccanismi di solidarietà. La proposta della Commissione è molto articolata e non può certo essere illustrata in dettaglio in questa sede (si veda lo studio svolto dal Ceps per una visione d’insieme), basti dire che essa prevede la possibilità di offrire solidarietà ai Paesi di primo ingresso in diverse modalità (oltre a ricollocamenti, anche supporto tecnico e la controversa «return sponsorship») e secondo regimi differenziati concepiti per adattare la risposta alle diverse circostanze.
Uno studio commissionato dal servizio ricerca del Parlamento europeo è giunto tuttavia alla conclusione che difficilmente il meccanismo di solidarietà previsto dal Patto europeo su migrazioni e asilo sarà in grado di compensare il carico posto sui Paesi di primo ingresso dalla riforma delle procedure di ingresso e di attribuzione della responsabilità. Ciò essenzialmente perché i ricollocamenti non saranno affatto la regola, avendo quasi sempre i Paesi membri la possibilità di adempiere ai loro obblighi di solidarietà in altro modo, e gran parte dei richiedenti asilo in arrivo, notabilmente quelli che saranno trattenuti alla frontiera in base alle nuove procedure di ingresso, saranno comunque esclusi dalla possibilità di ricollocamento.
Quale equilibrio tra responsabilità e solidarietà? A parte le sue declinazioni pratiche, è la filosofia di fondo che guida la proposta della Commissione che mi pare discutibile.
Come accennato, infatti, il ragionamento della Commissione sulla necessità di trovare un equilibro tra solidarietà e responsabilità parte dall’assunto che i Paesi di primo ingresso abbiano di fatto trovato il modo di alleviare il peso che il sistema Dublino avrebbe scaricato sui loro sistemi di accoglienza disapplicando gran parte delle sue regole.
La questione è nota: i Paesi di primo ingresso non registrano le domande d’asilo, lasciando transitare i richiedenti asilo verso altri Paesi europei, da cui sarà estremamente difficile rimpatriarli verso il Paese di primo ingresso. Questa la ragione per cui molte delle riforme proposte con il Patto europeo su migrazioni e asilo si concentrano sulla fase di «primo ingresso» e sul sistema di «ripresa in carico» dei richiedenti asilo da parte dei Paesi di primo ingresso.
I dati sulla distribuzione delle domande d’asilo tra i Paesi Ue sembrano supportare il ragionamento della Commissione, sia che si prendano in considerazione i numeri assoluti, sia che si consideri il tasso di domande d’asilo sulla popolazione residente in ciascun Paese membro della Ue.
I Paesi di primo ingresso non registrano le domande d’asilo, lasciando transitare i richiedenti asilo verso altri Paesi europei, da cui sarà estremamente difficile rimpatriarli verso il Paese di primo ingresso
Se consideriamo i dati assoluti, ad esempio, nel periodo 2015-2020 Grecia, Italia, Malta e Spagna da sole hanno registrato il 65% degli ingressi non autorizzati, ma solo il 21% delle domande d’asilo presentate nella Ue. I richiedenti asilo si sono in gran parte diretti verso Germania (35,8% delle domande d’asilo presentate in Ue), Francia (12%) e, in misura minore, Svezia (5,2%).
Se consideriamo invece il numero di domande d’asilo ogni 1.000 residenti, vediamo che nel medesimo periodo Germania, Svezia, Austria registrano un tasso di domande d’asilo ben al di sopra della media Ue (rispettivamente 23, 28 e 22, a fronte di una media Ue del 12), mentre Belgio, Francia e Olanda si situano leggermente al di sopra e al di sotto della media Ue (rispettivamente, 13, 9,6 e 8,7). Certo Cipro, Malta e Grecia continuano a guidare questa particolare classifica (con 45, 30 e 28 domande d’asilo ogni 1.000 residenti), ma due importanti Paesi situati lungo la frontiera meridionale d’Europa come Italia e Spagna registrano solo 7 domande d’asilo ogni 1.000 residenti.
Alla luce di tali dati, è evidente che nel periodo considerato un meccanismo informale di redistribuzione dell’onere dell’accoglienza sia stato comunque in funzione. Un meccanismo che ha prodotto uno scenario molto diverso dalle rappresentazioni giornalistiche diffuse in Italia e sovente rilanciate anche dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida del Paese. Se certamente è legittimo demistificare la rappresentazione vittimistica dell’Italia partendo dai dati, occorre tuttavia tenere presente che, al di là della sua apparente solidità empirica, il ragionamento che la Commissione sottende alle proposte di recente avanzate con il Patto europeo su migrazioni e asilo è discutibile sia per l’assunto che lo sostiene, che per le conseguenze che rischia di produrre.
La Commissione parte dal presupposto che l’impatto esercitato sui Paesi di frontiera dai «movimenti primari» (migranti e richiedenti asilo in ingresso) sia equivalente, o comunque paragonabile, all’impatto dei «movimenti secondari» sugli altri Paesi membri (migranti e richiedenti asilo che lasciano il Paese di primo ingresso per raggiungere un altro Paese Ue).
A prescindere dal fatto che ogni valutazione dell’impatto che l’arrivo di migranti e richiedenti asilo può avere su un Paese dovrebbe tenere conto di tutte le circostanze locali (oltre le caratteristiche demografiche, anche solidità economica, mercato del lavoro, eccetera), come si è sovente fatto in occasione di precedenti tentativi di elaborare chiavi di distribuzione effettuati a livello della Ue, è evidente che anche la fase del processo migratorio ha una qualche rilevanza. Richiedenti asilo e rifugiati tendono infatti ad essere più vulnerabili e, dunque, dipendenti dal supporto pubblico nelle prime fasi del processo migratorio, mentre diventano autosufficienti ed economicamente attivi con il passare del tempo. La gestione dei movimenti primari implica dunque un carico maggiore per i sistemi di welfare dei Paesi di primo ingresso, laddove gli altri Paesi di destinazione in Ue accolgono sovente migranti e richiedenti asilo con maggiore probabilità di avere un impatto positivo sul sistema economico nazionale.
Il vero problema risiede tuttavia nel fatto che la Commissione inquadra la questione dei «movimenti secondari» di richiedenti asilo e rifugiati da un punto di vista che incentiva la loro potenziale criminalizzazione, rischiando di snaturare le funzioni del sistema di accoglienza. Contrariamente a quanto sostenuto da molti osservatori, che invitano ad interpretare i «movimenti secondari» come la conseguenza delle profonde divergenze dei sistemi d’asilo nei diversi Paesi membri o l’esito della naturale aspirazione di richiedenti asilo e rifugiati a ricongiungersi con le loro comunità di riferimento, cercando accoglienza in Paesi che percepiscono come più affini dal punto di vista linguistico e culturale, la Commissione interpreta il fenomeno come il frutto della tendenza ad aggirare le regole di quanti non manifestano genuine esigenze di protezione.
Ragionando in questi termini, la Commissione chiude a qualsiasi possibilità di una riforma del criterio di allocazione della responsabilità che tenga conto dei desideri e delle aspirazioni di richiedenti asilo e rifugiati, perpetuando così la logica di un sistema basato sull’assunto che «il richiedente non ha ne il diritto di scegliere il Paese membro in cui formalizzare la domanda di protezione, né il Paese membro che sarà responsabile dell’esame della domanda» (si veda la Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla gestione dell'asilo e della migrazione che modifica la direttiva 2003/109/Ce del Consiglio, p. 23). Un sistema basato su tali presupposti necessita tuttavia di meccanismi coercitivi in grado di piegare la volontà dei richiedenti asilo, costringendoli ad accettare il Paese di accoglienza o di ricollocamento loro assegnato, evitando al contempo che questi facciano perdere le loro tracce.
Questa la ragione per cui, molte delle proposte incluse nel Patto europeo su migrazioni e asilo faranno sempre di più somigliare il sistema di accoglienza dei Paesi membri a un sistema concentrazionario, disegnato per contenere la mobilità dei richiedenti asilo all’interno dello spazio Ue, trattenendoli preferibilmente nei pressi dei luoghi di sbarco e riportandoli con la forza nei Paesi di primo ingresso (o di ricollocamento) qualora li abbiano abbandonati. L’esperienza degli anni passati mostra, tuttavia, che un sistema d’asilo il cui funzionamento dipenderà in gran parte dalla necessità di ricorrere alla coercizione, oltre a essere disumano, sarà con tutta probabilità largamente inefficace.
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