Questo articolo fa parte dello speciale Società migranti
Oltre a essere uno dei fenomeni culturali più interessanti degli ultimi anni, come ha sottolineato Caterina Romeo, questa letteratura sta incoraggiando la società a ripensarsi e a concepire le migrazioni e le successive generazioni di nuovi italiani in modi che vanno oltre il rifiuto e la vittimizzazione.
Il termine «decolonizzare» viene impiegato nell’accezione «diretta» per contributi che riguardano nello specifico il passato coloniale italiano e le sue più immediate conseguenze, e «indiretta» con riferimento ai contributi che decostruiscono i più ampi meccanismi di razializzazione e culturizzazione nella produzione culturale anche al di fuori dalle ex colonie, in un paese che continua a percepirsi più come colonizzato che come colonizzatore.
Sebbene non sia semplice stabilire dei confini precisi intorno alla genesi temporale di queste letterature, ne circoscriverle all’interno di una precisa definizione, prendiamo qui a riferimento gli anni Novanta a partire da cui si sviluppano per piccole e medie case editrici – con una caratterizzazione fortemente incentrata sulle storie della migrazione (italian migration literature) con una componente autobiografica e autori di «prima generazione» talvolta in collaborazione con coautori di origine italiana – via via questa letteratura si amplia nei temi, nelle forme e nei mezzi del linguaggio con sempre più lavori di giovani autrici e autori nati/e in Italia. Attraverso l’istituzione di riviste (come El Ghibli) e concorsi letterari (come Eks&Tra e Lingua Madre), a partire dalla iniziale curiosità «socio antropologica» per le storie individuali, l’interesse diviene maggiormente «letterario», nei confronti di un’ibridazione di generi e linguaggi precedentemente inesplorata: dalla diversità sociale, ai processi di razzializzazione e produzione di illegalità, rendendo conto della complessità delle identità contemporanee. Il lavoro di queste scrittrici, in larga parte donne, sulla memoria in particolare dagli anni Dieci ad oggi assume un ruolo cruciale all’interno delle possibilità di riscrivere e ripensare la storia coloniale italiana attraverso la ricerca di archivio e le memorie personali. Collettanee come Africane e Future testimoniano, inoltre, la plurivocalità delle narrazioni decoloniali.
Se, come da più parti auspicato, la nostra società ha un «disperato bisogno di parlare di colonialismo e del suo rimosso», la letteratura può essere un veicolo efficace in questo senso. Essa può configurarsi come un modo di costruzione di sensi e significati condivisi(bili), non solo per rendere conto chiaramente di quella violenza che strutturalmente costituisce l’ossatura del razzismo quotidiano dei «Ladri di denti» (Djarah Kan), ma affinché apra le porte ad un cambiamento possibile.
Se, come da più parti auspicato, la nostra società ha un "disperato bisogno di parlare di colonialismo e del suo rimosso", la letteratura può essere un veicolo efficace in questo senso
Ai canali espressivi di questo movimento culturale contribuiscono programmi radiofonici (tra i primi possiamo ricordare Black Italians condotto da Igiaba Sciego su Radio Rai Tre), fumetti, podcast, blog con un importante ruolo giocato dai social nei processi di elaborazione dei contenuti tra «italianità», afrodiscendenza e blackness e nel dibattito trasnazionale sulle rappresentazioni di genere e «razza» nella cultura visuale.
La prospettiva intersezionale che questi contributi veicolano ha anticipato in un certo senso la diffusione e traduzione anche in Italia di testi – come per esempio Donna, ragazza, altro di Bernardine Evaristo o la fortunata ristampa dell’Elogio del margine di bell hooks – che in altri paesi da tempo affrontano le diseguaglianze e la pluralità di appartenenze di genere, razza, orientamento sessuale, generazione e classe sociale.
Le sfide che si pongono oggi come terreno fertile di innovazione in ambito letterario possono essere dunque lette su tre livelli distinti e intrecciati: sfide linguistiche, tematico-narrative, editoriali.
La lingua storicamente si configura come vettore di riproduzione di egemonie, una delle dinamiche attraverso cui il potere (coloniale, ma anche di genere e di classe) si è riprodotto al livello macro della storia e micro della quotidianità. Questo riguarda non solo cosa si dice ma come si dice, quali pratiche linguistiche si adottano, quale storia hanno le parole che si decide di usare, cosa si tace più o meno involontariamente. La stessa letteratura ha veicolato immaginari e rappresentazioni discriminanti determinando una riproduzione delle diseguaglianze e di un doppio standard. Queste autrici e autori propongono un’ibridazione linguistica che deriva dall’essere madrelingua italiani, scolarizzati in italia e include il linguaggio di strada, i dialetti italiani, la lingua della propria famiglia e linguaggi multimediali, andando alla ricerca di forme di espressione che diano voce alle richieste di cambiamento sociale. Una delle sfide che la letteratura e le forme artistiche più in generale ci pongono, dunque, riguarda proprio le modalità possibili di rivedere, in primis, le pratiche linguistiche, «modi di dire» sottili che la nostra società ha sedimentato nel tempo e che necessitano oggi di essere scardinati.
Altresì, la scelta di una lingua o di un’altra per scrivere e per raccontare assume un significato determinante: inglese, francese, le lingue europee sono storicamente lingue forti per veicolare messaggi e narrazioni proprio perché le lingue del potere coloniale. Per uno scrittore o scrittrice la scelta di scrivere o di non scrivere nella propria lingua di origine assume un significato letterario e politico – esempio lampante e attuale è il Premio Nobel per la Letteratura 2021 a Abdulrazak Gurnah, scrittore originario della Tanzania, di lingua madre swahili che scrive in inglese.
Considerare il piano tematico e narrativo significa chiedersi urgentemente di cosa parliamo quando parliamo di razza, di razzismo, di bianchezza, di colonia, di mancata integrazione. Questo implica, a livello dei generi della narrazione, superare il solo livello della testimonianza e del racconto di vita come portato specifico e affrontare gli incontri mancati di un noi frammentato. Significa rimarcare cosa vuol dire e come agisce praticamente il mancato riconoscimento di diritti, cosa vuol dire accedere ad un mercato del lavoro che è diseguale perché crea intrinsecamente un doppio standard che corre lungo linee della differenza (e del colore) e, nello stesso tempo, parlare di percorsi di resistenza e inclusione. La narrativa ha così il potere performativo di costruire degli immaginari altri che possano tradursi in futuri diversi.
Considerare il piano tematico e narrativo significa rimarcare cosa vuol dire e come agisce praticamente il mancato riconoscimento di diritti, cosa vuol dire accedere ad un mercato del lavoro diseguale e, nello stesso tempo, parlare di percorsi di resistenza e inclusione
Questi ragionamenti portano dunque a porre il tema di come il mercato editoriale italiano stia reagendo a queste letterature diffondendo uno sguardo intersezionale e postcoloniale ad un pubblico più vasto e non di «esperti» di migrazioni, diritti, al di fuori dal mondo accademico.
Si tratta di produzioni che travalicano il confine del libro e della carta stampata ma che convergono in molteplici forme, imponendo nuove risposte anche per il mercato editoriale e dei media, con i social, da Instagram a TikTok, che possono configurarsi come strumenti per ampliare la capacità di voice delle giovani generazioni come autrici e autori oltre che come lettori e lettrici. Ciò porta con sé importanti risvolti anche per la letteratura per l’infanzia e i materiali didattici.
Il dibattito su decolonizzare la letteratura sulle e delle migrazioni in prospettiva di genere e di generazione, attraverso modi di produzione della conoscenza multipolari e decentrati, ha risonanze anche nell’attuale dibattito scientifico.
Eleonore Kofman ha parlato di «iniqua internazionalizzazione» della comunità epistemica, estesa geograficamente, ma in modo «disomogeneo e con regioni significative del Sud ai margini teorici». Decentrare gli studi sulle migrazioni non è facile. Guardare anche ai lavori teorici e empirici di giovani studiosi/e al di fuori dell’Europa e del nord America, incorporare in modo più proattivo prodotti scientifici e ricerche scritte anche in lingue diverse dall’inglese e stabilire collaborazioni più orizzontali e su piccola scala tra colleghi da istituzioni di ricerca più o meno centrali sono alcune delle proposte emerse dal primo dialogo su decolonizzare gli studi di genere e delle migrazioni del network GenSeM di IMISCOE
Per Kudakwashe P. Vanyoro, Leila Hadj-Abdou e Helen Dempster (LSE) la prospettiva decoloniale implica anche di tener conto del proprio posizionamento e bias cognitivi, per evitare che la ricerca contribuisca alla costruzione di confini stratificanti e razializzanti. Decolonizzare la metodologia, inclusa la considerazione della reciprocità e del rispetto dell’autodeterminazione dei partecipanti ad esempio nel contesto della ricerca qualitativa, si configura come una delle dimensioni non solo per migliorare i prodotti scientifici ma anche di etica della ricerca.
Le questioni poste dalla letteratura postcoloniale interrogano e coinvolgono il mondo della ricerca (anche quella che non si occupa direttamente di migrazioni) e la società stessa imponendo ancora una volta la necessità di costruire conoscenza condivisa, riorientare e ripensare il proprio sguardo e posizionamento in una logica di restituzione e impegno pubblico.
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