Come sempre, e sempre di più, il dibattito si polarizza fra chi difende i vaccini (e il governo e l’Italia) e chi difende la libertà (in questo caso declinata come libertà di espressione, libertà giornalistica). Ma se non siamo in grado di uscire da questo manicheismo, non usciamo dalle semplificazioni. Sicché lo spazio pubblico sarà sempre più ridotto a un’arena che oppone contendenti, anziché articolare differenze.
Il fatto è che la comunicazione non funziona solo per dichiarazioni esplicite e assertive. Se così fosse, dovremmo concordare con Ranucci: nella trasmissione di Report andata in onda qualche giorno fa non c’era alcuna affermazione antivax. Eppure la comunicazione produce effetti di senso, funziona cioè su molti livelli: le implicature (per cui se chiedi «ma lo stiamo davvero facendo?» stai retoricamente suggerendo che no, non stiamo facendo quel che dobbiamo), le associazioni sincretiche musica/immagini/parole (in Report strategiche: le canzoni che aprivano i servizi erano quasi sempre fortemente svalorizzanti), le presupposizioni (per cui con «navighiamo a vista» presupponiamo una certa dose di incoscienza…). Su questo piano direi che non ci sono dubbi: la puntata produceva un rischio concreto di tradursi in effetto delegittimante sulle scelte del governo in termini di vaccini e Green Pass.
C’è qualcosa di sbagliato in questo? Non credo, ma non voglio qui entrare nel dibattito sui diritti/doveri del servizio pubblico rispetto alle linee del governo. Tenderei a sostenere che la libertà di espressione va sempre rispettata. La mia riflessione è un’altra, ed è testuale, vorrei dire semiotica (che è la disciplina con cui mi sono formata e che insegno). E ha a che fare con la consapevolezza degli effetti di senso del proprio intervento discorsivo.
In un mondo ideale (o in una situazione delicata come quella attuale, dove abbiamo visto cosa è successo ad esempio a Trieste, in termini di conflitto e contagio) la comunicazione dovrebbe essere particolarmente avvertita e particolarmente «sensibile», non al rispetto dell’autorità ma alla complessità delle situazioni.
Continuiamo invece a costruire le storie giornalistiche allo stesso modo, secondo la stessa sintassi: problema – preparazione delle soluzioni - speranza - tradimento - colpe - interessi economici - danneggiamento del popolo… Anche Report ha seguito questo copione: ha dato un iniziale allarme (di cui diamo un sintetico fotogramma dei primi minuti di trasmissione), ha sollevato molti dubbi in forma continuamente interrogativa, è andato sui «luoghi del delitto» per rispondere a domande preventivamente formulate, ha spesso concluso (con gli interventi di Ranucci, incaricato di cucire insieme i vari servizi) su sanzioni negative («un errore gli inviati di Report lo hanno scoperto», «abbiamo scoperto un’anomalia, è stato commesso un errore»). E le persone comuni – intervistate qua e là, a dare il sapore della verità di strada – sono emerse come vittime, costrette a subire decisioni sbagliate o affrettate o interessate: delle case farmaceutiche e dei governi.
La logica è sempre quella denuncia dei cattivi da parte dei buoni (che lo schema del complotto adotta) – una logica che paga, paga sempre, ma non è detto che racconti un film realistico. Racconta un film che vende e coinvolge, più della noiosa e deludente storia di un’umanità che non sa esattamente che fare, ma intanto fa (che a me pare la sintesi banale di questi 18 mesi), e fa anche cose piuttosto importanti (come dei vaccini efficaci scoperti, testati e prodotti in 9 mesi).Non mi pare che mai alcun approfondimento informativo problematizzi ad esempio i diversi regimi temporali cui rispondono fare scientifico e fare politico; coordinarli non è banale ed è molto facile denunciare gli errori, dopo
Non mi pare che mai alcun approfondimento informativo problematizzi ad esempio i diversi regimi temporali cui rispondono fare scientifico e fare politico; coordinarli non è banale ed è molto facile denunciare gli errori, dopo. Né le trasmissioni tv discutono la drammaticità etica di certe scelte: aspettare i risultati dei trials e non fare nulla nell’attesa, o assumersi dei rischi e magari fare la terza dose anche senza tutti gli elementi di chiarezza? Tante decisioni in materia di Covid sono state strette da questa forbice (così come i medici dei nostri pronto soccorso hanno dovuto scegliere chi intubare), ma parlarne è difficile, troppo perturbante forse, mentre chiare sanzioni ex post, dove tutti assumono un posto, sono più rassicuranti.
Perché non si problematizza la costitutiva fallibilità della scienza? Perché non dire con chiarezza che è normale che, nei discorsi sul Covid, essendo tutto in fieri, gli errori possono esserci? Sta succedendo tutto per la prima volta: fra tanto topoi retorici, quello della «prima volta» non si rammenta mai. Eppure ci renderebbe tutti non solo più tolleranti, ma soprattutto più lucidi, che è ciò a cui l’informazione, in un momento così delicato, dovrebbe mirare. E con una maggiore chiarezza della complessità in gioco, forse, si potrebbe davvero riflettere su alcuni capitoli diventati secondari in questa corsa emergenziale: gli studi dei pazienti, prezioso materiale umano per le ricerche future (posso dire, da ex paziente ospedalizzata per Covid, che nessuno mi ha mai fatto una domanda sulla mia esperienza; mi piacerebbe molto essere «studiata» per quel che è stato il mio Covid e il mio terribile long Covid); la distribuzione dei vaccini nei Paesi poveri; la quota di responsabilità umana nell'emergenza (o produzione, o diffusione) di questo nuovo virus…Un servizio informativo dovrebbe cercare di fare altro rispetto al gioco del “trova l’errore”: far riflettere sulla sincronizzazione che la pandemia ha forzato, spiegare le logiche che possono portare a certi errori
Penso che un vero e costruttivo servizio informativo (pubblico o meno) dovrebbe cercare di fare altro rispetto al gioco del «trova l’errore»: far riflettere sulla sincronizzazione che la pandemia ha forzato (fra regimi politico-economico-scientifico-etici, che normalmente viaggiano a ritmi diversi); spiegare le logiche che possono portare a certi errori; spiegare certi equivoci lessicali (molte accuse sulla mezza terza dose Pfizer credo si svuotino con la distinzione tra richiamo e terza dose); fare il complesso lavoro di traduzione tra linguaggio della scienza e linguaggio ordinario; contestualizzare la durezza o la vaghezza di certe affermazioni, rendendo più comprensibili le incertezze e più calcolati i rischi, senza dileggiare nessuno.
E invece, ahimè, anche in Report di note di dileggio ce n’erano (già nel «non c’è due senza tre» del titolo), e la logica prevalente era quella dello smascheramento: abbiamo colto il fallo. Per questo, anche se non state pronunciate esplicitamente frasi antivax, questa puntata sarà ampiamente utilizzata dai no-vax. Forse non era così difficile da prevedere, tra l’altro. Non sarà decodifica aberrante: sarà lo svolgimento di uno dei percorsi interpretativi che il testo apriva e sollecitava: il percorso di un pubblico ministero del popolo, che deve condannare chi detiene il potere.
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