Tutte le tesi a sostegno della validità del servizio pubblico radiotelevisivo possono essere rovesciate per sostenere la tesi opposta.

Identificando, come si fa normalmente, il servizio pubblico con la Rai, l’azienda che su concessione dello Stato svolge, o dovrebbe svolgere, le attività di servizio pubblico, il giudizio sulla Rai diventa anche quello sul servizio. L’approccio più corretto sarebbe quello di tenere distinta l’idea che si ha del servizio pubblico, del fatto che esso sia o meno necessario, dal giudizio che si dà sulla Rai. Se per esempio il giudizio sulla seconda fosse negativo, ciò non dovrebbe automaticamente comportare la negazione del primo, così come se si ritiene che il servizio pubblico debba esistere, non significa accettare la Rai così come è adesso.

Seguiamo un altro percorso logico: cosa è il servizio pubblico? Sintetizzando al massimo, possiamo affermare che il servizio pubblico è un modello di televisione di qualità necessario a limitare una deriva dell’intero sistema televisivo che inevitabilmente si avrebbe se il sistema fosse del tutto privatizzato. Questa idea si sostanzia con un’informazione pluralista e obiettiva, con inchieste ben documentate che graffino il potere, con programmi che divertano con garbo e siano rivolti a tutti, e con una gestione svolta secondo criteri di efficienza.

Il pluralismo è dare voce a tutte le ragionevoli opinioni, avere soprattutto un’informazione obiettiva, che premi la rappresentazione della realtà rispetto al giudizio sui fatti raccontati. Il racconto della realtà può essere obiettivo, l’affermazione di verità è sempre soggettiva. L’operatore dell’informazione pubblica dovrebbe documentare al meglio i fatti riportando le varie opinioni di giudizio sui fatti stessi. In tal modo il pubblico avrebbe la possibilità di farsi un proprio ponderato giudizio. Senza poi dimenticare che l’informazione, nei programmi di approfondimento giornalistico, è per natura un “gendarme della legalità”, che non si ferma di fronte a nessun potere.

Il servizio pubblico dovrebbe offrire una “buona televisione” che rispetti tutti, che riavvicini le diversità fra le persone evitando che le stesse diversità siano oggetto di dileggio o spettacolarizzazione, che valorizzi i tesori e le culture del nostro territorio.

Tutto questo dovrebbe essere svolto da un’azienda pubblica che operi con efficienza, e un servizio pubblico che lavori in tal modo sarebbe apprezzato dalla grande maggioranza.

La domanda successiva è: la Rai assolve a questi compiti, è un vero servizio pubblico? Qui iniziano i cahiers de doléances, che portano alcuni a ritenere l’inutilità della presenza di un servizio pubblico auspicando la privatizzazione della Rai. A mio parere i limiti più evidenti di quest’ultima sono legati all’informazione, alla programmazione meridiana e pomeridiana, alla gestione.

L’informazione è sempre troppo squilibrata a vantaggio del governo di turno; purtroppo la Rai si porta dietro questa tara da sempre e non riesce a liberarsene, anche perché l’azienda non riesce a essere indipendente. Rispetto alla precedente “legge Gasparri”, le più recenti, che danno al governo un potere superiore nelle nomine dei vertici della Rai, decidendo annualmente l’entità dei ricavi da canone da assegnarle, rende ancor più l’esecutivo il dominus sulla gestione di questa, segando di fatto la sua autonomia.

Nel contempo vi sono tanti programmi interessanti, vedi diverse prime serate su Raiuno e Raitre; l’apprezzamento dei quali è dimostrato dal successo negli ascolti (cito come altro esempio di successo le fiction). Il punto debole è rappresentato soprattutto dai talk, dai programmi di intrattenimento. Perché per esempio non porre un limite temporale alla durata dei contratti con le star? Il cambiamento non potrebbe che essere salutare e permetterebbe di valutare nuovi talenti; la permanenza “perenne” di diversi conduttori causa rendite di posizione che portano alla standardizzazione. Il fatto che la Rai sia “sottomessa” a pochi procuratori è cosa risaputa!

È efficiente la Rai? Qui si tocca un argomento delicato in quanto la risposta, seppur negativa, non è così netta. Avere 13 mila dipendenti contro i 5,5 mila di Mediaset, circa 1,8 mila giornalisti e 11 testate, 13 canali Tv e 10 radio (fonte: Mediobanca) è eccessivo, così come sono tanti i 4-5 mila addetti alla produzione, quando spesso i programmi sono acquistati chiavi in mano, e poi c’è l’ elefantiaca struttura burocratica che finisce per amministrare sé stessa. Vanno però considerati gli obblighi che la Rai ha in quanto servizio pubblico, vedi le 21 sedi regionali e l’informazione locale, le decine di uffici di corrispondenza all’estero, l’orchestra sinfonica, le Teche (dove è raccolta la storia audiovisiva del Paese), i programmi rivolti alle minoranze linguistiche e i tanti altri obblighi “fuori-mercato”. Alla luce di queste considerazioni il giudizio negativo si ridimensiona, divenendo positivo se si confronta la Rai con i maggiori servizi pubblici europei.

In conclusione, rimane necessario che ci sia un servizio pubblico radiotelevisivo, per “tutelare” la nostra fragile democrazia. Nel contempo se si ritiene che la Rai non assolva i suoi compiti di servizio pubblico, i cittadini e gli abbonati avrebbero il sacrosanto diritto di pretendere che lo faccia.

Un servizio pubblico non è una macchina, è un modo di essere e di operare che va continuamente migliorato. Farebbe bene la Rai a dotarsi di una commissione di saggi esterni che stimoli questo processo di continua crescita (come avviene in altri servizi pubblici europei).

La presenza di un nuovo, moderno ed efficiente servizio pubblico è tuttora indispensabile per un Paese avanzato, e la Rai dovrebbe cogliere questa opportunità autoriformandosi. Il fatto che i servizi pubblici esistano in tutti i Paesi europei e che il recente referendum in Svizzera per abolire il canone sia stato nettamente sconfitto rappresenta un riferimento dal quale risulterebbe incomprensibile se ce ne discostassimo.

 

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