Pur dando correttamente conto dell’istituzione di un gruppo di lavoro presso il ministero dell’Università e della Ricerca, voluto dalla ministra Anna Maria Bernini, il professor Marra sembra aver già tracciato nel suo articolo apparso su queste stesse pagine le conclusioni cui il tavolo di lavoro dovrà necessariamente pervenire.
In due significativi passaggi, infatti, afferma che sul problema dei requisiti della didattica, vale a dire il numero dei professori da reclutare, “non pare poter esserci spazio per una mediazione”. E poco sotto, in un'affermazione abbastanza perentoria a proposito della tipologia dei corsi di studio che possono essere svolti a distanza, segnala che i limiti esistenti “costituiscono limiti ragionevoli dai quali il gruppo di lavoro istituito presso il Mur, anche facendo tesoro delle indicazioni del giudice amministrativo, farebbe bene a non discostarsi”.
Come membro di quel gruppo di lavoro, avverto un forte senso di frustrazione rispetto a questi esiti annunciati, frustrazione cui vorrei resistere provando ad aprire un dialogo in cui tentare di dimostrare che alcuni temi potrebbero essere al contrario dibattuti in modo profittevole all’interno di quel tavolo tanto atteso dalle università telematiche (la prima convocazione fu fatta nel febbraio del 2022!) e che senza l’autorevole intervento della ministra non sarebbe mai ripartito.
Ad esempio, il suo richiamo al tavolo a “fare tesoro delle indicazioni del giudice amministrativo” meriterebbe uno sviluppo un po’ più ampio. La pronuncia del Consiglio di Stato cui Marra fa riferimento in modo corretto è accompagnata da una raccomandazione che pare invece fornire al gruppo di lavoro margini abbastanza ampi di intervento:
“È dunque prevedibile che una parte consistente delle questioni oggi proposte dalla ricorrente sarà oggetto di nuovi ponderati interventi dall’autorità politica e dall’amministrazione, che terranno conto delle conseguenze economiche delle innovazioni proposte e dell’impatto sulle strutture universitarie telematiche che hanno già consolidato i rispettivi assetti organizzativi, alla luce dei previgenti criteri”.
E ancora:
“L’assenza di profili di evidente irragionevolezza non preclude alla ricorrente di sollecitare il ministero dell’Università e della Ricerca a considerare con la massima attenzione tutte le peculiarità che caratterizzano l’effettuazione di corsi universitari con modalità telematiche”.
Forti anche, ma non solo, di questi richiami, gli atenei telematici che si riconoscono nella sigla United hanno già depositato al Mur un documento in cui si prospettano delle soluzioni che a loro avviso potrebbero essere una solida base di discussione. Il Dm 1154 cui Marra fa riferimento relativamente al rapporto docenti/studenti cancella il precedente decreto del 2019 che consentiva a questi atenei un rapporto di tre volte inferiore. Norma “eccessivamente lasca”? Non a nostro parere, proprio perché tale norma era basata sulla specificità della didattica a distanza durante la quale non si realizza mai la presenza di docenti e studenti in un’aula fisicamente determinata, con orari di apertura e chiusura ed erogazione di una didattica sincrona, bensì attraverso il deposito di lezioni, peraltro regolarmente aggiornate, su una piattaforma digitale a cui gli studenti, spesso in questo caso lavoratori-studenti, possono accedere senza limiti né di numero né di tempo né di distanza geografica dalla sede di erogazione.
Non mi pare casuale che proprio in questi giorni – la nota è del 3 marzo scorso su Italpress – l’Ansi (Associazione nazionale scuola italiana), per bocca del suo presidente Raffaele Bonanni, si esprima in questi termini: “Pensiamo, ad esempio, alla proposta insensata e penalizzante di costringere le università digitali ad avere lo stesso rapporto tra studenti e docenti, come se le modalità di studio e di insegnamento fossero identiche tra il modello universitario tradizionale e quello digitale”.
Le telematiche hanno intercettato una platea per cui fino a poco tempo fa era impossibile accedere al titolo di studio superiore: quella dei lavoratori studenti, che formano tuttora i ¾ degli iscritti a questi atenei
È sui modelli didattici delle telematiche che è necessario focalizzare l’attenzione del legislatore: ruolo fondamentale di questi modelli è la didattica asincrona, che invece viene attaccata continuamente, vedi la legge Pa 110 e lode, in spregio alla comprovata superiorità di quest’ultima rispetto alla didattica a distanza sincrona. È anche attraverso questo strumento che le telematiche hanno visto crescere esponenzialmente il numero dei propri iscritti, andando a intercettare una platea per cui fino a poco tempo fa era impossibile accedere al titolo di studio superiore: quella dei lavoratori studenti che formano tuttora i ¾ degli iscritti a questi atenei.
Proprio nella convinzione della complementarietà di queste università con le tradizionali mi preme sottolineare un problema del nostro Paese costantemente sottovalutato e che potrebbe invece trovare una soluzione all’interno di una sintesi fra i due sistemi: il mismatch lavorativo e la conseguente necessità di un vero lifelong learning. Erogare un titolo di laurea a questi lavoratori studenti è il migliore, se non l’unico, mezzo per realizzare quel re-skilling o up-skilling per il quale invece in Italia nel 2022 a fronte di una domanda di 780 mila laureati da parte delle imprese, in un caso su due la ricerca si è rivelata problematica.
Non riteniamo neppure che la norma fosse “eccessivamente lasca” là dove consentiva alle università telematiche di conteggiare fra i docenti di riferimento anche i professori a contratto ai sensi della legge 240/2010 nota come legge Gelmini; preferiamo anzi considerare la possibilità di reclutare queste figure, come pure quelle dei professori in convenzione, come un arricchimento culturale e una contaminazione preziosa e necessaria in una università moderna.
È vero, come dice il professor Marra, che nel 2006 fu emanata una legge che vietava provvisoriamente (a proposito delle “proroghe che in un Paese come il nostro possono spesso diventare permanenti”) l’istituzione di nuove università telematiche, ma non vietava l’istituzione di nuovi corsi, che, giova ricordarlo, furono possibili solo dopo che proprio il giudice amministrativo, ritenendo illegittimo il diniego di attivazione di nuovi corsi, annullò l’art. 6, comma 5, del Dm n. 50 del 23 dicembre 2010.
Proprio su questo tema dell’apertura di nuovi corsi il documento conferito al Mur è particolarmente critico verso la legislazione vigente. Pur riconoscendo che sarebbe assolutamente inopportuno concedere alle telematiche la possibilità di erogare qualsiasi tipologia di corso, cosa peraltro ampiamente esclusa dalla legislazione vigente, valga per tutti il caso del corso di Medicina, la divisione in classi dei corsi erogabili finisce per essere una preclusione aprioristica che non tiene in alcun conto le dotazioni e le infrastrutture che alcuni di questi atenei possiedono da tempo. Si vincoli piuttosto l’accreditamento al possesso e al rispetto dei parametri in termini di dotazioni ritenute necessarie quali laboratori, magari di “alta specializzazione ben disciplinati da disposizioni di legge anche europee” (Dm 289/2021), ma anche di biblioteche, palestre o cucine.
Allora, di nuovo, anche in questa fattispecie soccorre il “far tesoro del giudizio del giudice amministrativo”: in almeno tre tipologie di corso – Scienze Motorie, Scienze della nutrizione umana e Biotecnologie – le università telematiche vi hanno dovuto far ricorso per veder riconosciuto il loro diritto a erogare corsi che malgrado la comprovata presenza delle strutture necessarie erano stati rigettati dal Consiglio universitario nazionale. Ciò soltanto perché risultavano apoditticamente appartenenti a una certa categoria: “i pareri del Cun oggetto di gravame mostrano di non dare conto in termini specifici e puntuali delle motivazioni per le quali l’istituendo corso di laurea di cui trattasi, oggetto dell’istanza di accreditamento, rientrerebbe nell’indicata tipologia” (Tar 9814/21).
Perché non concedere al singolo ateneo telematico l’onere del dimostrare di avere una propria autonoma organizzazione che assolve alle specifiche prescrizioni richieste?
Perché dunque non concedere al singolo ateneo telematico che ne fa richiesta l’onere del dimostrare di avere una propria autonoma organizzazione che assolve alle specifiche prescrizioni richieste?
Del resto il reiterato rifiuto da parte sia della Crui sia del ministero, almeno fino ad oggi, di ammettere le università telematiche all’interno dei principali organi consultivi che contribuiscono alla disciplina e alla programmazione nazionale in materia di istruzione universitaria ha condotto inevitabilmente a un incremento del contenzioso giurisdizionale registrato in materia, proprio per l’isolamento delle competenti amministrazioni nella predisposizione di decreti in questo settore.
Valga anche qui ricordare i Decreti ministeriali 1061 e 1062/ 2021, ove il Mur individuava quali beneficiari delle dotazioni Pon “Ricerca e Innovazione” 2014-2020, esclusivamente gli atenei convenzionali “a esclusione delle università telematiche”.
E di nuovo sul punto è intervenuto il giudice amministrativo che ha sancito la chiara illegittimità di tale esclusione evidenziando come non possa “di certo prescindersi dalla considerazione che, in ogni caso, le università telematiche sono comunque dotate di proprie sedi e compartecipano allo sviluppo del tessuto culturale e produttivo dell’ambito territoriale nel quale operano” (Tar 14392 e 14453).
Si è detto spesso che queste ultime operano una sorta di concorrenza sleale nei confronti degli atenei tradizionali, sottraendo loro iscritti: ebbene questa è un’affermazione smentita facilmente non solo dalla semplice constatazione della diversa platea degli studenti, ma anche da un’analisi estremamente banale sui numeri. Nel periodo 2010-2015, in cui le telematiche realizzavano un numero risibile di iscritti, gli atenei tradizionali hanno avuto un decremento delle iscrizioni al primo anno dell’1,1%, mentre nel periodo 2015-2022, quello di massima espansione delle università telematiche, gli atenei tradizionali hanno avuto un incremento di studenti del 2,4%.
In ultima analisi, è solo attraverso il reciproco rispetto dei propri ruoli che sarà possibile attuare una integrazione virtuosa fra le università tradizionali e quelle telematiche, che devono coesistere se non altro alla luce del contributo decisivo che queste ultime hanno dato e possono continuare a dare in termini di incremento del numero di laureati.
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