Non vorrei che, nella confusione degli ultimi mesi, fosse passata l’idea che il problema principale della scuola italiana sia la scuola. Perché il problema principale della scuola italiana è l’Italia.
La scuola italiana, dalle materne all’università, continua a educare molti ottimi studenti che diventano ottimi cittadini. Non aggiungo la solita frase «Dio solo sa come», perché si sa benissimo come: grazie alla dedizione di insegnanti – elementari, medi, universitari – poco amati dallo Stato che servono e poco pagati. Non tutti gli insegnanti, naturalmente, rientrano in questa categoria di benemeriti. Ci sono anche i matti, i fannulloni, gli ignoranti, le figurine patetiche da Amarcord. Quelli ci sono dappertutto, ma la mia impressione è che gli insegnanti che ci sono nelle scuole oggi (elementari, medie, università) siano mediamente migliori di quelli che sono andati all’università attorno al Sessantotto e hanno cominciato a insegnare attorno al Settantasette (per quanto riguarda l’università direi che non c’è possibilità di dubbio, per la buona ragione che molti di quella generazione sono andati in cattedra avendo pubblicato un libro, mentre oggi ce ne vogliono almeno due per diventare anche solo ricercatori). Se la voce degli insegnanti di oggi si è fatta più fioca a paragone di quella dei loro colleghi di un tempo, questo non si deve alla loro indegnità, o al fatto che le cose di cui si occupano non sono importanti, ma al fatto che la vita è cambiata, e che la scuola compete oggi con «agenzie educative» molto più potenti e attraenti. Ma credo proprio che in un qualsiasi consiglio di classe la percentuale di persone perbene sia maggiore di quella che si trova in Parlamento, in un consiglio regionale preso a caso o in un consiglio d’amministrazione preso a caso.
Questi bravi insegnanti formano bravi studenti che diventano a loro volta bravi cittadini; ma il percorso virtuoso finisce lì, perché questi bravi studenti hanno serissime difficoltà a "giocarsi" la loro bravura
Questi bravi insegnanti formano bravi studenti che diventano a loro volta bravi cittadini; ma il percorso virtuoso finisce lì, perché questi bravi studenti hanno serissime difficoltà a «giocarsi» la loro bravura. Una delle parole d’ordine più in voga dell’inesauribile Retorica Nazionale è «eccellenza»: promuovere l’eccellenza, investire sull’eccellenza. Ma francamente non si capisce bene per quale ragione i contribuenti italiani dovrebbero pagare una formazione eccellente a giovani che poi andranno a lavorare all’estero per compagnie straniere, perché il sistema industriale italiano non sa che farsene, o non è abbastanza competitivo (è il caso di parecchi chimici, fisici, ingegneri che conosco); oppure a giovani che, rimasti in Italia, non possono provare le loro qualità perché a nessuno, delle loro qualità, importa poi molto. Poter provare le proprie qualità significa poter «concorrere»: cioè partecipare a una selezione che separa i meno bravi dai più bravi. Ma l’Italia ha una viscerale renitenza alle selezioni e ai concorsi. Per quelli che vogliono bene al popolo ogni selezione, anche se fatta in base al merito, è classista. Se è così, che senso ha studiare tanto? Per quelli che il popolo vorrebbero vederselo intorno il meno possibile ogni selezione va abolita in nome di un criterio più spiccio – sei dei nostri? Se è così, che senso ha studiare tanto?
Di qui una varia casistica. Il laureato o l’addottorato è bravissimo, meriterebbe un lavoro, farebbe del bene al Paese, ma: il concorso, semplicemente, non c’è (perché ci sono state troppe scriteriate assunzioni in passato e i ruoli sono pieni); oppure il concorso c’è ma è già deciso, e lo vincerà qualcuno che non merita quanto lui ma è da più tempo nella lista d’attesa (è il caso dei concorsi a scuola o all’università: ma è un caso che non riguarda la scuola e l’università come istituzioni, riguarda innanzitutto le norme concorsuali fissate dal ministero); oppure il concorso c’è, ma per partecipare bisogna seguire dei corsi speciali, una scuola a pagamento, e nemmeno la scuola basta, ci vogliono le conoscenze giuste, e insomma non basta saper fare ma bisogna essere iscritti a un ordine, a una corporazione, a un sindacato (ma per esempio: se i giornalisti di stampa e tv in giro oggi sono il prodotto delle scuole di giornalismo non è ovvio che la prima cosa da fare è chiudere le scuole di giornalismo?), oppure ci vuole questa laurea e non quella (ma per esempio: perché mai un laureato in storia o in storia dell’arte non può fare il concorso diplomatico, un concorso nel quale i libri di testo da preparare sono per la gran parte libri di storia?). Non sarebbe invece il caso di promuovere sempre e solo i migliori, indipendentemente dall’età e dagli esami che hanno dato all’università? Non è a questo che servono i concorsi? Altrimenti perché mai dovremmo, anche con le mie tasse, «investire in eccellenza»?
Non sarebbe invece il caso di promuovere sempre e solo i migliori, indipendentemente dall’età e dagli esami che hanno dato all’università? Non è a questo che servono i concorsi?
Ci sono un mucchio di persone, in Italia, che non vanno bene. È difficile anche solo abbozzare un elenco. Ci sono gli amministratori locali in quota mafia. C’è un campionario da circo equestre di deputati e senatori: quello che racconta le barzellette, quella che si esibisce a Ballando sotto le stelle, quella che due mesi fa faceva la presentatrice in tv, quella che tra due mesi farà la presentatrice in tv, quello che scrive poesie, quelli che mangiano la mortadella in Parlamento… Ci sono gli ex giornalisti che hanno capito che rincoglionire il pubblico con la tv del dolore rende molto di più che fare inchieste decenti, e si fatica di meno. Ci sono le ex modelle che hanno capito che si è aperto uno spazio interessante nel settore del giornalismo televisivo. Ci sono gli incredibili para-giornalisti che parlano e scrivono di calcio con la sintassi di un tredicenne. E poi ci sono gli opinionisti, gli atei devoti, gli astrologi, gli ufologi, quelli che reggono il sacco agli astrologi e agli ufologi… In mezzo a questa varia umanità non ci sono delle mele marce: sono tutti mele marce. Sono la triste alleanza di cleptocrazia e società dello spettacolo che da decenni umilia il Paese e lo svergogna agli occhi del mondo. Per capirlo, basta sapere un po’ d’inglese.
Ora, sia ben chiaro che tra le persone che non vanno bene ci sono anche, per esempio, quei docenti universitari che mandano a far lezione al loro posto gli assistenti (una categoria che non esiste) o i «cultori della materia» (una categoria che non dovrebbe esistere) senza pagarli, o che si fanno scrivere i libri e gli articoli dagli allievi, o che fanno vincere i concorsi agli allievi più scemi, «perché a far vincere quelli bravi son capaci tutti» (la frase non è inventata). Ma qui ci sono due cose da precisare. La prima è che questi individui appartengono, per la gran parte, alla generazione felice che ora, per la felicità di tutti, sta uscendo di scena (e questo non va detto per giovanilismo, che è un’idiozia, ma perché molti di costoro hanno fatto carriere molto rapide senza vocazione e senza merito, impedendo tra l’altro l’accesso all’università a molti meritevoli che hanno avuto il solo torto di nascere tardi: e se uno si trova sempre la strada spianata è facile che diventi un irresponsabile). La seconda è che queste mele marce stanno all’interno di un luogo – la scuola, l’università – in cui a differenza di quanto accade in molti altri luoghi pubblici e privati del nostro Paese è ancora possibile contare su risorse umane in gran parte sane: persone che vanno bene. Con tutta questa confusione, ripeto, era il caso di ricordarlo.
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