L’intervento del ministro Calenda e del segretario della Cisl Bentivogli sul «Sole - 24 Ore» del 12 gennaio scorso sta stimolando una viva discussione circa le politiche industriali. Gran parte di quanto proposto è condivisibile, almeno rispetto agli interventi per l’innovazione tecnologica, l’internazionalizzazione delle imprese e la concorrenza nei servizi, sebbene si abbia l’impressione che si tratti di interventi troppo modesti, data la tempesta che si sta per scatenare sui mercati internazionali con innovazioni tecnologiche in grado di mutare in maniera significativa le modalità di produzione e consumo.

L’Europa farà fatica ad affermarsi in un panorama dominato dalle sfide dell’intelligenza artificiale, dai robot, dalle nuove tecnologie per la mobilità delle merci e delle persone. E l’Italia farà ancora più fatica, a prescindere, temo, dall’applicazione del Piano Calenda-Bentivogli.

Il Piano riconosce esplicitamente la forte eterogeneità spaziale che caratterizza le economie regionali del nostro Paese laddove propone il decentramento nella definizione dei contratti di lavoro. Questo punto sembra, però, poco convincente per due ordini di ragioni.

  1. La base di partenza di tale proposta sta nell’osservazione dei salari reali, troppo alti nel Mezzogiorno; ossia, a parità di reddito, un lavoratore del Sud ha maggiore potere di acquisto rispetto a quello del Nord, pur essendo meno produttivo (in media). Questa condizione, in base a una visione delle economie locali molto in voga nel mondo anglosassone, comporterebbe elevati tassi di disoccupazione perché il costo del lavoro sarebbe elevato. Ma se così è, pur in presenza di disoccupazione, dovremmo osservare flussi migratori, magari di laureati, provenienti da Nord e diretti verso Sud, a caccia di un tenore di vita molto più alto. Invece, perché un maestro nato e cresciuto in Lombardia, una volta ottenuto il posto di lavoro, non chiede il trasferimento a Caltanissetta? E un impiegato di banca?
  2. La ragione per cui è pressoché impossibile osservare migrazioni da Nord a Sud risiede nelle cosiddette diseconomie esterne, cioè nelle difficili condizioni ambientali in cui versano le imprese del Meridione e nella scarsa qualità della vita per i cittadini. In altri termini, se pure si può essere d’accordo con le statistiche che vedono il Mezzogiorno primeggiare per salari reali, questi sono necessari a compensare i lavoratori, per convincerli a rimanere in quei mercati del lavoro. Questi redditi che si presumono alti sono invece necessari per iscrivere i figli nelle università del Nord o ancora per ingrossare le fila dei migranti temporanei per usufruire delle strutture sanitarie del Settentrione.

L’Italia, da sempre, è un territorio disomogeneo e interventi che non siano spazialmente differenziati sono drammaticamente destinati ad acuire le differenze tra Nord e Sud. D’altro canto, immaginare che le politiche territoriali collassino a una sostanziale liberalizzazione della contrattazione salariale non sembra cogliere il punto essenziale, ovvero la bassa produttività (del lavoro e del capitale), e inciderebbe negativamente sulle diseguaglianze. Alcuni punti credo meritino di essere almeno segnalati.

  1. Sugli investimenti nelle grandi reti di comunicazione fisica e virtuale, la priorità è stata sempre data al Nord (basti pensare all’Alta Velocità) che ha, quindi, iniziato prima ad usufruire dei benefici relativi. In un mondo che viaggia ormai velocissimo, questi ritardi diventano incolmabili, con il Mezzogiorno che rincorre affannosamente tecnologie che, una volta afferrate, rischiano di essere ormai superate.
  2. Da decenni, a prescindere dal sacro principio di addizionalità, l’Italia ha completamente demandato alla politica europea di coesione gli interventi per lo sviluppo dei territori, sebbene questi stessi interventi, particolarmente utili in altri Paesi, da noi presentano un’efficacia di fatto nulla. Colpa di una capacità di programmazione che si è deteriorata nel tempo e che andrebbe, oggi, rivitalizzata e aggiornata.
  3. Le economie avanzate cui tutti guardano non sono solo quelle in cui le aziende crescono, ma sono quelle ove il capitale imprenditoriale riesce continuamente a generare nuove imprese. Molti territori italiani, un tempo intrisi di piccole imprese, soffrono oggi per lo scadimento dello spirito d’iniziativa, che necessita di una manutenzione straordinaria attraverso una specifica educazione, oltre che di capitale finanziario: due condizioni fondamentali oggi e che si preannunciano tali ancor di più in futuro.

La declinazione territoriale di un qualsivoglia piano di rinascita industriale dell’Italia appare, dunque, essenziale per garantire una maggiore efficacia agli interventi previsti. Questa gradazione non può passare attraverso un mero decentramento della contrattazione salariale, ma deve aggredire le ragioni ambientali che minano la produttività del lavoro e del capitale delle imprese meridionali, a cominciare proprio dal settore pubblico.

 

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