Il Mezzogiorno di oggi merita una riflessione profonda, e un’azione politica di sviluppo determinata, di lunga lena. Un’attenzione, cioè, che vada al di là del piccolo dato o dell’andamento congiunturale; e un’azione che superi il breve periodo e il ritorno immediato, anche di immagine. Fuori, dunque, del facile consumo mediatico dell’informazione usa-e-getta o delle tattiche per assicurarsi consenso oggi puntando sull’oggi.
La sua situazione non va drammatizzata più di quanto già non sia e occorre evitare in tutti i modi di lasciarsi andare al catastrofismo. Al contrario, va illuminato ogni più piccolo aspetto positivo, coltivando speranza e seminando fiducia. Assai bene fa la Svimez nel suo recentissimo rapporto a mostrare tutti i dati positivi del 2015; a sottolineare una certa ripresa dell’occupazione e in parte degli investimenti; ad attribuire particolare importanza al fatto che finalmente si sta muovendo un po’ la domanda interna. Al tempo stesso a continuare a ricordare a un’Italia un po’ distratta le opportunità (dalla logistica alla cultura) che il Mezzogiorno presenta nell’economia contemporanea: opportunità decisive per la crescita dell’intero Paese, dato che investire 100 al Sud ha un effetto di 40 al Nord, e non viceversa.
Tutto ciò detto, se solleviamo gli occhi dal quotidiano e guardiamo indietro (alla grande crisi che abbiamo attraversato), avanti (a come nel prossimo decennio potranno proseguire le tendenze in corso) e intorno (alle altre aree dell’Europa e del mondo), ciò che vediamo ci fa tremare i polsi.
Il Sud è ancora nella crisi economica più grave della sua intera storia unitaria, avendo perso 12 punti di Pil rispetto al suo inizio. La ripresa prevedibile nei prossimi anni è ancora modestissima, del tutto insufficiente a creare lavoro e sviluppo: di questo passo solo per tornare al 2007 potrebbero occorrere diversi lustri. Il resto del mondo, pur fra mille problemi, comunque cammina; e il Sud è così scivolato indietro, per tenore e qualità della vita, rispetto a vaste aree dell’Europa dell’Est che ancora 10-15 anni guardavamo dall’alto; il suo reddito procapite a parità di potere d’acquisto è ormai inferiore rispetto a Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lituania, Estonia, Polonia, Ungheria.
Le politiche pubbliche, con l’austerità, hanno cambiato verso. Nel Mezzogiorno è aumentata la tassazione, più che nella media italiana; allo stesso tempo è diminuita la spesa pubblica (che è su livelli procapite molto inferiori al resto del Paese, non dimentichiamolo mai) più che nella media. È in corso, e in accelerazione negli ultimi mesi, un forte processo di marginalizzazione del sistema universitario meridionale, che potrebbe compromettere per decenni lo sviluppo umano dell’area, civile prima ancora che economico.
Lo sforzo di infrastrutturazione del territorio, in presenza di evidenti necessità, è ai minimi storici: la spesa in conto capitale nell’ultimo triennio è quasi dimezzata, in valori reali, rispetto ai dati di inizio secolo; è scesa solo all’1% del Pil dell’area. È debolissima specie nella sua componente nazionale (la spesa ordinaria e quella del Fondo Sviluppo e Coesione); quando, come nel 2015, si spendono invece i fondi europei, l’effetto su reddito e occupazione è forte. Ma, come nota la Svimez, questo non sembra ripetersi nel 2016.
Il Sud è ricco di creatività e inventiva; di nuove imprese; di persone e aziende che investono. Conserva, nonostante tutto, forme di coesione sociale. Sono fenomeni che vanno promossi, sostenuti. Ma i dati sono un pugno nello stomaco: il valore aggiunto manifatturiero, già piccolo, si è ridotto di un terzo negli ultimi sette anni. Ci sono ferite sociali molto grandi. Una vasta popolazione povera ed emarginata, con tanti, ma proprio tanti, bambini in povertà (e con quali prospettive?); un esercito di disoccupati. Soprattutto un’intera generazione di giovani a cui stiamo togliendo il futuro, chiedendo loro di emigrare o di rassegnarsi a lavoretti, e a vite precarie; con una natalità bassissima. Cova forse al suo interno uno scontento, una rabbia, che non riusciamo a vedere e misurare, ma che potrebbe esplodere se infiammata – come sta accadendo in altre parti del mondo – da leader spregiudicati, con esiti imprevedibili.
Per tutti questi motivi è bene che di Sud si discuta sempre di più. Ma è bene che si tratti di una riflessione seria e profonda, che duri nel tempo; che apra magari una stagione di vere e proprie inchieste, come quelle dell’Ottocento per capire come sta davvero il Sud e che cosa occorre prioritariamente fare. Mai abbandonarsi al pessimismo; ma mai dimenticare che i fattori di rischio sono tanti e forti, e che conviene affrontarli a viso aperto e con coraggio, finché siamo in tempo.
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