Fillon, punto e a capo. Ridotta all’osso: è questa l’indicazione più univoca, ma anche più veritiera, delle primarie della destra e del centro francese. François Fillon parteciperà alla corsa all’Eliseo del 2017 e lo farà contando su una legittimazione giunta da un voto franc et massif. Le primarie sono state un successo perché hanno prodotto un risultato netto, perché hanno dimostrato la capacità organizzativa della destra post-gollista e anche perché hanno ridato dignità all’istituto stesso dell’elezione primaria. Il fatto che si sia imposto il «terzo uomo», e soprattutto che gli oltre quattro milioni di francesi che, a due riprese, si sono mobilitati non si siano fatti condizionare dai sondaggi così favorevoli ad Alain Juppé, getta obiettivamente una luce nuova su un metodo di selezione che, in Italia e in Francia in particolare, qualche perplessità l’aveva sollevata. Il grande successo di immagine di queste primarie se è possibile deve essere ulteriormente amplificato considerando da dove si è partiti, e cioè dalle «macerie del 2012», con il partito orfano di Sarkozy, dilaniato dalla lotta intestina Copé/Fillon e poi gravato dai guai finanziari e giudiziari legati proprio all’ultima campagna presidenziale dello stesso Sarkozy, guai sfociati nel cosiddetto affaire Bygmalion.
Se osservate da questa prospettiva, le primarie concluse domenica scorsa sono state una vera manna dal cielo per l’ex Ump, ribattezzato (più che rifondato) da Sarkozy con il nome di Les Républicains. Proprio quelle primarie che Sarkozy, una volta tornato sulla scena e ripresa la guida del partito, aveva fortemente avversato (avendone compresi tutti i rischi), e che, al contrario, Fillon e Juppé avevano fortemente voluto, oggi costituiscono il vero trampolino di lancio per ipotizzare una riconquista dell’Eliseo da parte della destra post-gollista.
Attenzione però a non bruciare le tappe. François Fillon al momento ha vinto, seppure nettamente, delle elezioni primarie. La sua campagna elettorale per la presidenza della Repubblica inizierà e si strutturerà nelle prossime settimane. Quindi tutti gli scenari e le speculazioni o addirittura i ritratti di Fillon quale futuro inquilino dell’Eliseo sono anticipazioni azzardate ma soprattutto inopportune. Oggi si devono ricordare due questioni principali, poco trattate in particolare dai molti «specialisti» prêt-à-porter di questioni francesi.
Prima di tutto bisogna andare alle radici della vittoria di Fillon. L’ex primo ministro ha interpretato al meglio la competizione che stava giocando. Ha impostato la sua campagna come campagna per le primarie e non come pre-campagna elettorale per la presidenza, scelta in larga parte fatta propria da Alain Juppé (basti pensare ai quattro volumi pubblicati ciascuno su un grande tema di interesse nazionale, operazione tipica di un candidato alla presidenza). Fillon si è imposto mettendo insieme un complessivo «racconto nazionale» nel quale il liberalismo economico-sociale rappresenta l’ultima chance per salvare il Paese dalla bancarotta al quale ha aggiunto temi tutti interni al dibattito della destra francese, quest’ultima da intendersi nella sua dimensione più ampia.
Ecco quindi il pugno duro sul terrorismo ma anche nei confronti dell’islam intollerante, i richiami ai valori identitari e della Francia cattolica e la lotta al politicamente corretto e alla «sinistra morale», modello Taubira e Vallaud-Belkacem. Il tutto completato da un sano e franco anti-sarkozismo, nutrito anche da un certo spirito di vendetta nei confronti di colui che più volte, tra il 2007 e il 2012, lo chiamò in maniera beffarda «il mio collaboratore» al posto di «M. Le Premier Ministre».
Secondo dato da non trascurare: chi è realmente, da un punto di vista politico, François Fillon? Su questo punto più dei ritratti che anche la stampa italiana ci ha offerto (sospesi tra il legame con Philippe Séguin e la passione per le auto da corsa e la 24ore di Le Mans), è Fillon stesso a fornirci qualche indicazione. Nel 2012, in un’occasione pubblica, al termine dei suoi cinque anni trascorsi a Matignon, egli fece l’elogio di Georges Pompidou e disse di ispirarsi a lui, al suo «rifiuto delle ideologie, ma anche della demagogia e delle piccole querelle elettorali». Già ammesso che non è facile trovare un politico francese che si accosti al trascurato secondo presidente della Quinta Repubblica, questo richiamo ci dice non poco di Fillon. Pompidou è stato un pragmatico e un anti-dottrinario per eccellenza, e allo stesso tempo un conservatore sui temi valoriali (vedi la posizione sull’aborto), ma estremamente aperto sull’evoluzione economico-sociale e in generale sulla necessità di accelerare il progresso scientifico e la modernizzazione del Paese (basti pensare agli sforzi sull’energia atomica ma anche alla sensibilità per le tematiche ambientali). Fillon assomiglia molto a quel mix di radici paesane e contadine della Francia profonda e di modernità e spinta verso un futuro di progresso che fu Pompidou per la Francia di fine anni Sessanta, quel Pompidou professore di letteratura francese ma grande amante di arte contemporanea. Quanto vi sia di poco dottrinario nel personaggio Fillon e di conseguenza di errato nel dipingerlo come una specie di epigono di Margaret Thatcher transalpino lo dimostra proprio il suo approccio al liberalismo economico. Le promesse di ristrutturazione del settore pubblico (taglio di mezzo milione di funzionari) e di drastica diminuzione della spesa sono per Fillon non un valore in sé, ma strumenti per un obiettivo finale più alto e ambizioso, quello di preservare più possibile la sovranità nazionale francese e di conseguenza di poter riproporre una qualche forma, seppur riadattata e rivista, di grandeur (in questo senso vanno letti i legami Fillon-Putin, ma anche il suo «euro-scetticismo», emerso nella scelta del 1992 di opporsi a Maastricht).
Detto questo, le prospettive sono aperte e la partita finale è lì da iniziare. Difficile dire se Fillon sarà un buon candidato per la destra repubblicana, come complesso è affermare se si tratti di un buon candidato da affrontare per il Partito socialista o per il Front national. I socialisti devono intanto risolvere la questione delle loro primarie di gennaio. Certo Fillon potrà essere accusato dalla gauche di voler smantellare il modello sociale transalpino, ma insistendo troppo su questo punto il Ps rischierebbe di portare la critica sul terreno del Fn, che ha già avviato questo tipo di attacco al neo-candidato post-gollista. Proprio il Fn, probabilmente, avrebbe preferito la cosiddetta droite molle di Juppé. Anche perché recenti analisi empiriche hanno smentito la vulgata in base alla quale il voto frontista in Francia sarebbe stato incentivato dalla droitisation della destra post-gollista, in particolare in epoca Sarkozy. Alle regionali del 2015 si è notato che le regioni con candidato di centro (frutto degli accordi di alleanza tra centro e destra) sono state quelle con il maggior avanzamento del Fn. Al contrario in quelle con un candidato Lr, portatore di un discorso più duro e identitario, si sono avute le peggiori performance del partito frontista.
Come si vede, dunque, lo scenario è ancora fluido ed eccedere in semplificazioni finirebbe per sortire il chiaro effetto confusione. Fillon, con il suo passato e le sue caratteristiche, è ai blocchi di partenza. Prospettarlo un mese fa avrebbe suscitato ilarità. Anche però farlo transitare da «signor nessuno» a ottavo presidente della Repubblica in pectore qualche moto di ilarità può provocarlo.
[Questo articolo è pubblicato anche su www.mentepolitica.it]
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