Una campagna di rottura. Lo spettro del «gaucho-lepenisme» agita la Francia alla vigilia del primo turno presidenziale. Nell’ultima settimana, in un clima reso estremamente teso dalla sfida terroristica, la possibilità che l’Eliseo possa essere conteso al ballottaggio da Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon non è rimasta confinata nell’ambito della fantascienza politica ma è stata evocata da più parti. Le ultime rilevazioni, pubblicate alla vigilia del silenzio elettorale, indicano in realtà che il leader della «France insoumise» fermerebbe la sua rimonta in quarta posizione, al 18%, con un leggero ritardo rispetto al trio di testa Macron (23%), Le Pen (22%), Fillon (21%). Gli scarti sono comunque ravvicinati e azzardare previsioni è rischioso in una campagna caratterizzata da una scarsa affidabilità dei sondaggi, smentiti in occasione delle primarie dei due principali partiti (sono lontani i tempi in cui i due maggiori istituti, in virtù della loro autorevolezza, erano soprannominati «Santa Ifop» e «Santa Sofres»). Al di là dei numeri, la centralità acquisita nelle ultime settimane dallo strano tandem composto dal tribuno della sinistra radicale e dall’erede della Francia nera è l’emblema della polarizzazione di una campagna caratterizzata da una volontà di «rottura» radicale con il sistema. Se alla coppia Mélenchon-Le Pen – accreditata attorno al 40% – si sommano i consensi di Dupont-Aignan, Asselineau, Poutou e Artaud si arriva attorno al 45%. Mai nella storia delle presidenziali le estreme avevano conquistato, contemporaneamente, un numero così importante di consensi. Circa un francese su due rifiuta la tradizionale logica dell’alternanza e preferisce l’alternativa radicale.
Questo vento di protesta parte da lontano, e nel corso degli anni molti campanelli di allarme, rimasti inascoltati, lo hanno ripetutamente annunciato: la pratica del voto sanzione che dal 1981 a oggi ha costantemente punito la maggioranza uscente a ogni elezione legislativa (eccezion fatta nel 2007); il clamoroso esito del primo turno delle presidenziali del 2002 con l’arrivo al ballottaggio di Jean-Marie Le Pen; la bocciatura del trattato costituzionale europeo il 29 maggio 2005 nonostante le indicazioni in favore del «sì» da parte di tutti i principali partiti; la crescita di consensi al Front national, che a partire dalle europee del 2014 si è affermato come primo partito del paese; il crollo di legittimità degli ultimi inquilini dell’Eliseo che hanno battuto ogni record di impopolarità presidenziale sino alla decisione di Hollande – unicum nella storia della V Repubblica – di non correre per la propria successione. L’attuale campagna rappresenta l’esito e il coronamento di questo processo.
Intendiamoci, non è la prima volta che la corsa all’Eliseo si gioca sulla parola d’ordine di rottura rispetto al passato. Anzi, si potrebbe dire che non si entra all’Eliseo se non si è disposti a incarnare la discontinuità. Giscard d’Estaing nel 1974 vinse promettendo di mettere in soffitta il gollismo, Mitterrand nel 1981 pose fine all’associazione tra V Repubblica e destra, Chirac nel 1995 interruppe la lunga parentesi socialista, il volontarismo di Sarkozy prometteva di rilanciare il paese dal lungo torpore dell’era Chirac, mentre Hollande è arrivato all’Eliseo sull’onda dell’antisarkozysmo rampante. Nella campagna del 2017 tuttavia la carica di «rottura» appare più potente e generalizzata che in passato. Essa non investe soltanto il bilancio del presidente uscente ma è diretta contro un’intera generazione politica, contesta il sistema internazionale (in particolare il reintegro nel comando integrato della Nato), è insofferente verso l’Ue, l’euro e anche verso lo stesso sistema politico-istituzionale quintorepubblicano che molti vorrebbero rottamare in favore di una VI Repubblica dai contorni piuttosto indefiniti.
Se questo atteggiamento era nel dna dei candidati della sinistra radicale alla Mélenchon, con il suo opuscolo «Qu’ils s’en aillent tous» («Che se ne vadano tutti!») o della destra euroscettico-populista alla Le Pen, la sorpresa è averlo ritrovato anche nei candidati dei tradizionali partiti di governo. Il socialista Benoît Hamon ha preso fermamente le distanze dal bilancio della presidenza Hollande, durante la quale ha tuttavia rivestito incarichi ministeriali, presentando un programma di rottura profonda rispetto alla decennale linea del proprio partito (abrogazione della legge sul lavoro, reddito universale, 32 ore lavorative settimanali, transizione alla VI Repubblica ecc.). Emmanuel Macron, che pure a livello programmatico annuncia una rottura piuttosto tranquilla rispetto all’eredità dell’hollandismo, ha investito tutto sull’immagine di candidato «eterodosso» del sistema politico. Si è immediatamente posto come dissidente della maggioranza governativa di cui pure aveva fatto a lungo parte in qualità di ministro dell’Economia, ha rifiutato di partecipare a qualsiasi primaria e, con la creazione del suo movimento «En Marche!», ha promesso di rilanciare il paese al di fuori dei tradizionali schemi partitocratici. Ma il candidato che meglio ha incarnato la deriva protestataria della campagna è François Fillon. Dopo una lunga carriera nel corso della quale ha occupato tutti gli incarichi politici eccetto l’Eliseo (consigliere municipale e regionale, deputato, senatore, ministro, primo ministro), all’indomani dell’inchiesta che lo ha coinvolto ha abbandonato la tradizionale compostezza per adottare una strategia populista. Presentandosi come vittima del sistema si è scagliato con forza contro l’Eliseo, il sistema dei partiti, la magistratura e i media. A partire dalla grande manifestazione del Trocadéro (5 marzo) la sua campagna è stata un profluvio di invettive anti-casta, accompagnate da contestazioni dei militanti contro i giornalisti sino al rifiuto di concedere l’intervista di fine campagna al quotidiano «Le Monde».
Per entrare in sintonia con gli umori impolitici dei francesi, tutti i candidati hanno tentato di incarnare la rottura. La strategia può forse rivelarsi funzionale nella corsa all’Eliseo ma potrebbe rendere la permanenza del futuro inquilino piuttosto scomoda. In un contesto estremamente polarizzato la funzione presidenziale, profondamente delegittimata e impopolare, non svolge più il ruolo di garante della stabilità istituzionale ma rafforza il disorientamento generale rendendo il paese ulteriormente sensibile alle sirene del populismo e alla sindrome da declino nel quale pare irrimediabilmente sprofondato. Una sindrome che i candidati all’Eliseo nel corso della campagna elettorale hanno preferito cavalcare piuttosto che tentare di guarire.
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