Macron: uno sguardo oltre la vittoria. Dunque Emmanuel Macron è l’ottavo presidente della Quinta Repubblica. L’enarca ha brillantemente superato i primi due turni della sequenza elettorale aprile-giugno 2017.
La legittimità presidenziale, dopo un ottimo primo turno, vinto con oltre 8,5 milioni di voti, è stata confermata dai venti milioni di voti abbondanti ottenuti al ballottaggio. Dopo aver ricordato che la legittimità è piena e il successo è rotondo, si possono però aggiungere anche gli «angoli bui» dell’esito del ballottaggio presidenziale per Macron.
E questi riguardano in primo luogo gli oltre 12 milioni di astenuti. È corretto ricordare che nel 1969 lo strano scrutinio organizzato in tutta fretta dopo le dimissioni di de Gaulle, l’inconsueto ballottaggio Pompidou-Poher e l’astensione indicata dai vertici del Pcf, avevano già portato al 25% di astenuti. Ed è altresì corretto rammentare che al primo turno del 2002 il livello di astensionismo aveva addirittura raggiunto il 28%. Ma nel primo caso parliamo di 9 milioni circa di assenti dalle urne e nel secondo in poco meno di 11. I 12 milioni del 7 maggio sono davvero un’enormità, come lo sono i 3 milioni di bianche e il milione abbondante di nulle. Se in 20 milioni hanno scelto Macron, almeno 16 milioni hanno dimostrato il loro malessere o comunque la loro scarsa empatia con il leader di En Marche! o restando a casa o annullando il voto.
In secondo luogo bisogna ricordare che se Marine Le Pen non ha raggiunto l’auspicata (da lei) soglia del 40%, i 10,5 milioni di voti raccolti restano un risultato di tutto rispetto. Stiamo parlando di oltre il doppio del voti raccolti dal padre al ballottaggio con Chirac. E, elemento ancora più importante, la crescita dal primo turno è stata di oltre 3 milioni, mentre il padre nel 2002 aveva ottenuto solo 700 mila voti in più tra primo e secondo turno. Tale risultato, infine, conferma un trend in crescita continua da parte del Fn dal 1988 a oggi, con l’unica eccezione delle presidenziali del 2007.
Infine bisogna ricordare che nei 20 milioni di voti raccolti da Macron è presente anche una parte di «barrage républicain». I vari leader de Les Républicains lo hanno richiamato in ordine sparso, Mélenchon lo ha sin da subito escluso. Eppure una parte consistente dei due elettorati, più quello di Fillon, ma non poco nemmeno quello de La France insoumise, ha praticato la logica del «tout sauf Marine». Dunque tra quei venti milioni di voti, una percentuale importante non può essere definita un «voto di adesione» al progetto politico di Macron, ma un voto di opposizione all’arrivo all’Eliseo di Marine Le Pen.
Ecco perché diventano così importanti il terzo e quarto turno dell’11 e 18 giugno. Ottenuta la legittimità presidenziale, tocca ora a quella parlamentare, determinante affinché il presidente riesca ad implementare il suo programma, in particolare per quello che riguarda la sua dimensione interna e nello specifico le riforme economico e sociali. Senza una maggioranza autonoma e con la necessità di negoziare all’Assemblée nationale, la mediazione finirà per depotenziare la sua carica riformista.
Affinché ciò accada è decisiva prima di tutto la scelta attenta delle candidature di ogni singolo collegio. In secondo luogo è importante la scelta del Primo ministro e del governo che dovranno condurre questa campagna elettorale. E infine potrebbe essere di qualche aiuto qualche apertura proveniente da oltre Reno, che Macron potrebbe già da spendere in campagna elettorale.
Ma esiste anche una dimensione sulla quale poco può il neo-eletto presidente e questa riguarda in particolare le scelte e il futuro di almeno tre delle forze politiche uscite, in un modo o nell’altro, sconfitte da questa elezione presidenziale, cioè La France insoumise, Les Républicains e il Front national. Il Ps è volutamente escluso, dal momento che la sua implosione è oramai certificata e ancora una volta come dopo il pessimo risultato di Defferre nel 1969, si attende una rifondazione. La corsa a raggiungere il neo-eletto presidente è già in stato avanzato per i dirigenti, i militanti stanno organizzandosi e gli elettori hanno già nelle due passate domeniche indicato la via.
Per La France Insoumise le prossime legislative saranno un test per comprendere se i 7 milioni di voti del primo turno sono stati l’episodica infatuazione per un brillante tribuno o il primo passo per la rifondazione di una gauche alternativa, a seguito dell’implosione del Ps e della novità Macron.
Per il Fn sono due le incognite. Intanto se il processo nei confronti di Marine Le Pen verrà posticipato o se andrà in parallelo con la campagna elettorale. E in secondo luogo se il Fn riuscirà a trovare candidati credibili per riuscire ad imporsi nelle 45 circoscrizioni nelle quali Marine Le Pen il 7 maggio ha superato il 50% dei voti e nelle 66 nelle quali è andata oltre il 45%.
Ma l’evoluzione chiave sarà probabilmente quella che investirà nelle prossime settimane Les Républicains. È oramai evidente come si stiano delineando due opzioni. Da un lato i cosiddetti «centristi», rappresentati tra gli altri da Estrosi, Raffarin, Le Maire, Kosciusko-Morizet e in generale i sostenitori di Juppé alle primarie tentati dalla scelta di raggiungere la République en Marche, così da allargare le truppe potenziali a sostegno della majorité presidentielle. Dall’altra l’ala dei «duri», dominata dai sostenitori di Fillon e di Sarkozy, guidata da François Baroin e tra gli altri rappresentata da Laurent Wauquiez e Eric Woerth, che considera il voto legislativo lo strumento per imporre a Macron una coabitazione forzata sin dal prossimo giugno.
Un sondaggio realizzato la sera del ballottaggio ha indicato che oltre il 50% degli elettori vorrebbe un governo sostenuto da forze di centro-destra e centro-sinistra, una sorta di grande coalizione alla francese.
Ebbene, se Macron vorrà applicare la sua cura riformista al malandato modello francese, dovrà forse sperare in un risultato più chiaro ed univoco tra un mese.
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