Da oggi «Domani» è in edicola, ma i suoi lettori in un certo senso lo precedono, perché durante l’estate una newsletter count-down molto ben congegnata ha saputo raccontare la sala travaglio. Del «Domani» prima di oggi mi è rimasto impresso l’articolo dell’8 settembre a firma dal direttore Stefano Feltri, che partendo da un piccolo caso ha messo in piazza il dilemma redazionale del nostro tempo: ha senso dare spazio a un dibattito scatenato da una notizia falsa? Raccogliere lo spunto mi sembra il miglior modo per unirmi al brindisi inaugurale.
Nel caso specifico il dubbio è sorto a proposito del flame generato da Armine Harutyunyan, la «modella brutta», per dirla con l’indicizzazione di Google. Per giorni, migliaia di post (e a seguire brillanti articoli su testate anche autorevoli) hanno commentato come e perché Gucci l’avesse inserita nella lista delle 100 donne più sexy del mondo (cosa mai accaduta, non esiste nessuna lista). In data 31 agosto anche il «Domani» è intervenuto nel dibattito, pubblicando questa analisi dello scrittore Jonathan Bazzi, che riconduce lo scandalo alla libido del maschio medio, in Italia «misura di tutte le cose». L’articolo (che nel merito qui non ci interessa) non si muove lontano dalla realtà – commenti triviali sul fatto che «dove andremo a finire, ora pure le modelle brutte» si sono ovviamente sprecati su tutti i social –, il problema è che il pezzo comincia così: «Il dibattito montato nelle ultime ore su Armine Harutyunyan, la modella 23enne di origini armene scelta da Gucci per le sfilate della Fashion Week milanese dello scorso autunno e di recente inserita tra le 100 donne più belle del mondo, è tutto sbagliato». In sintesi: nel commentare commenti veri (per dire che sono sbagliati), l’autore ripete un’informazione falsa (senza dirci che è sbagliata). Altra cosa sarebbe stato premettere che nonostante l’inesattezza della notizia, le reazioni seguite al fake sono così emblematiche da meritare una riflessione; ma è probabile che il dilemma di redazione condiviso da Feltri non si sia svolto prima – scegliamo di pubblicare perché in questo caso il vero gemma dal falso – ma dopo la pubblicazione, avvenuta come per quasi tutti senza un’accurata verifica dei fatti menzionati a premessa del ragionamento.
Specifico questo non certo per puntare il dito sulle scelte di un giornale che nasce oggi, ma per rispondere alla loro richiesta di riflessione, e per ammettere che dentro a questo problema lavoriamo tutti, dalla grande firma all’ultimo saltuario pubblicista. Mettiamola in termini semplici. Il punto, come sempre per i giornali, è trovare un equilibrio sano tra l’essere affidabile e circolare, ma il sistema dei media contemporaneo sembra rendere queste due priorità fisiologiche sempre meno complementari e sempre più alternative. Per ragioni di sostenibilità, nessuna testata che ambisca a vivere nell’ecosistema digitale può astenersi dalle sue metriche, e dunque meno che mai dal flusso, dai trend topic, dalle meccaniche della viralità delle piattaforme social. Per fortuna, tra i gattini in home page e il reportage di guerra dall’inviato sul campo – alternativa resa drammatica dal differenziale tra costi e ricavi – esistono tante, decorosissime, vie di mezzo. La più gettonata che vedo in giro è quella che potremmo raccontare con la metafora dell’esca: prendo un tema reale che reputo sia da affrontare (la mentalità media maschile italiana) e lo incapsulo in un trend topic che sta funzionando (la modella brutta), in questo modo mentre raggiungo lettori e mieto visualizzazioni ho immesso nel sistema un pizzico di mio pensiero, della mia ragion d’essere editoriale.
La tecnica dell’esca è in verità un compromesso più ampio, che riguarda qualsiasi soggetto che abbia la necessità di comunicare (verrebbe da dire di esistere), a cominciare dai politici che oggi più che mai competono in un habitat ibrido, in cui tornano utili e si mischiano tecniche e linguaggi dello spettacolo e del giornalismo che la Tv ha reso da tempo limitrofi. Tanto per fare un esempio recente, una buona esca l’ha utilizzata Elly Schlein durante la campagna per le elezioni regionali emiliane, «intervistando» a tradimento Salvini sul perché gli eurodeputati della Lega non avessero mai partecipato ai tavoli sull’immigrazione a Bruxelles; la viralità di quel video fu garantita dal corpo balbettante del leader memetico (la capsula), non dalla domanda intelligente di Elly (il contenuto), che pronunciata al festival dell’Unità non avrebbe avuto lo stesso impatto. Salvini reagì al colpo subito con l’intervista del citofono («ma lei spaccia»?), che nelle bolle da me frequentate diede la netta sensazione di disperato buco nell’acqua, ma non è mai semplice misurare il successo o l’insuccesso di questa tipologia di operazioni, soprattutto non è semplice farlo con il metro del consenso politico (che alla pari dell’affidabilità delle notizie non è sovrapponibile al fenomeno della viralità).
Ma torniamo al giornalismo. Soprattutto se facciamo i giornalisti la funzionalità di momentanee «esche» non ci autorizza a utilizzarle senza curarci del fatto che circolando moltiplichino notizie false (e questo secondo me a prescindere dalla rilevanza del fake in questione, nel caso della «modella brutta» in effetti molto bassa). In sintesi, nel sostenere che la viralità di qualcosa sia già una notizia in sé possiamo vedere almeno due pericoli. In primo luogo, indirettamente si accetta che si possano inventare storie (esche) per far meglio circolare le proprie tesi: inventiamoci un prete pedofilo per parlare del problema della pedofilia, tanto il dibattito che seguirà sarà vero, perché è vero che la pedofilia esiste e che esiste anche nella Chiesa cattolica. L’esempio è estremo ma è esattamente quello che è accaduto con gli «elettroshock di Bibbiano», cui insieme a litri di ciarpame e di speculazione politica è seguito anche un dibattito serio sulla delicatezza dei meccanismi di affido minorile (valeva la pena di inventarsi una corbelleria del genere per accendere le luci su questo tema?); o più di recente quando i giornali hanno riportato che il 30% degli insegnanti italiani si sarebbe rifiutata di fare il test sierologico, una falsità presumibile che ha giocato di anticipo su una realtà ipotetica, orientando un moto di opinione pubblica e a cui è seguita la concreta reazione della politica, come Feltri ben ricorda nel suo articolo.
In secondo luogo, e più importante di ogni caso specifico, sovrapporre viralità e notizia è pericoloso perché significa fare proprie la logica e gli obiettivi delle piattaforme commerciali, che a differenza dei giornali non sono portatrici di nessuna priorità culturale e deontologica (i codici di condotta che Fb ha cominciato a siglare sono compensativi, servono appunto a farsi accettare al tavolo della civiltà nonostante le lunghe ombre che di recente ne hanno intaccato il business). Proprio ai giornali e ai giornalisti, a me pare, questa epoca così difficile fornisce l’occasione di non confondersi, di fare tutt’altro mestiere, di svolgere tutt’altra funzione e di generare utili (certo molto inferiori) in altro modo, colmando altre tipologie di bisogno umano. Ad esempio il bisogno di sapere e comprendere, anche andando oltre le proprie credenze consolidate, i propri sistemi valoriali e di senso, le opinioni circolanti nella propria cerchia. Ma anche, certamente, il bisogno di appartenere (i giornali anche questo sono, appartenenze interpretative), senza però rimanere stupidi o essere trattati da tali.
Più che nel rapporto tra falso e vero, sempre difficilmente identificabile, credo che il dilemma editoriale della redazione contemporanea risieda nel rapporto di potere tra le testate giornalistiche – che proprio perché «la verità» al singolare non esiste dovrebbero essere quanto più plurali, diverse e dibattenti – e le piattaforme commerciali, che pur essendo totalmente neutre rispetto al contenuto che veicolano – il loro unico obiettivo è tenere l’utente davanti allo schermo – sono in grado, con le loro regole, di influire, modificare e uniformare le linee editoriali, come una sorta di super-editore. Astenersi dall’eco ha certamente dei costi, ma è tempo di provare a calcolarne anche i benefici. La mia speranza è che il «Domani» cominci proprio da qui.
In bocca al lupo da tutta la redazione del "Mulino".
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