Il Welfare aziendale è argomento da trattare con grande prudenza: la legge di stabilità 2016 – ancora in corso di elaborazione e per il momento di difficile accesso – sembra incentivarlo, come ha illustrato Marco Leonardi, con agevolazioni finanziarie che premiano la contrattazione di misure volte a fornire servizi, ma anche strumenti per l’acquisto di servizi (voucher), inquadrabili come di carattere latamente sociale.
Gli elementi di delicatezza sono di diverso tipo, e cercherò di attirare l’attenzione su alcuni dopo aver esordito con un duplice richiamo storico che – per l’appunto – illustra aspetti positivi e negativi. I libri di storia dell’industrializzazione italiana ricordano tra i grandi esempi di paternalismo quelli del Lanificio Rossi di Schio, con il quartiere di abitazioni per i dipendenti e servizi come l’asilo e la scuola. O, tra le realizzazioni di epoca più recente, le “comunità” della Olivetti di Adriano. Dall’altro lato, va ricordata la propensione del padronato – la storia ci narra soprattutto di quello britannico – a fornire beni e servizi in luogo di salario ai propri dipendenti al punto di provocare ripetuti interventi legislativi intesi a frenare il fenomeno, il primo dei quali in epoca industriale data fin dal 1831. Spesso anche qui si trattava di token – in cosa diversi dai moderni voucher? – da spendere negli spacci aziendali o comunque controllati dall’ imprenditore.
I primi due problemi dei moderni programmi di Welfare aziendale – o “contrattuale” come si esprime il recente rinnovo del c.c.n.l. per l’industria chimica – possono essere affrontati sotto una parola chiave: “sostituzione”. Come giudicare una previsione di servizi, organizzati a livello aziendale dirottando su questi ultimi risorse in sostituzione di incrementi salariali? Tralasciando gli aspetti fiscali – che non sono in grado di approfondire ma che comunque mi paiono configurare una utilità, per così dire, “di breve periodo” – resta un dirottamento della funzione corrispettiva del salario che, per una frazione non importa quanto rilevante, esce dalla libera disponibilità individuale.
Il secondo, problematico effetto di sostituzione si presenta rispetto a servizi analoghi o equivalenti ad erogazione “pubblica”. Anche qui non si resta esenti da ambiguità: quando una collettività manchi di determinati servizi, il fatto che una frazione almeno della stessa collettività possa fruire del servizio prestato in sede aziendale non può che essere giudicato positivamente. Ma il giudizio si ribalta, a mio modo di vedere, se questa situazione “esonera” il pubblico dal (cercare i modi per) prestare il servizio in questione o – ancora più negativamente – se in questo modo si fonda una pretesa sussidiarietà che devolve quel servizio o quei servizi al privato aziendale. Ci potrebbero poi essere situazioni “intermedie”: pensiamo a un servizio organizzato dal Welfare aziendale ma aperto a tutta la collettività circostante (un asilo nido aperto anche ai bambini del quartiere). Il tasso di valutazione “positiva” si incrementerebbe senz’altro, ma senza spostare gli elementi negativi sopra individuati.
Proviamo a esaminare le due valutazioni da altri punti di vista. La circolazione di risorse come indicatore della dimensione della solidarietà innanzitutto. Non occorrono sottili argomenti per apprezzare come nel Welfare contrattuale la circolazione sia estremamente ristretta: i dipendenti di quella impresa e solo loro esauriscono la fonte e l’impiego della risorse in questione. E il restringersi delle circolazioni solidaristiche costituisce origine di diseguaglianze capaci di minare il tessuto sociale di una comunità. Inoltre, uscendo un servizio dalla sfera pubblica, gli utenti si trasformano da cittadini utenti in clienti – come la migliore dottrina costituzionalistica ha argomentato – risultando pertanto deprivati degli strumenti di controllo propri della politica per disporre solo di quelli del mercato. E se questo è vero in assoluto lo è a maggiore ragione per un servizio privato aziendale, nel qual caso l’insoddisfazione eventuale non può che generare rivendicazione contrattuale, tra i cui esiti possibili c’è anche la cancellazione del servizio stesso. La valutazione negativa poi si “cumula” se il Welfare contrattuale si dota dello strumento “voucher”: il lavoratore è costretto a indossare doppiamente l’abito del cliente, del sistema aziendale e nel mercato esterno dei servizi in questione.
Gli argomenti si presentano, parzialmente almeno, diversi se la parola chiave è “integrazione”. La destinazione di risorse aggiuntive – anche sfruttando agevolazioni di vario tipo offerte dall’ordinamento, che non vadano però a incidere sulla circolazione di risorse solidaristiche generali – a servizi di rilievo personale può facilitare la realizzazione di programmi di benessere collettivo, che a loro volta possono essere estremamente utili anche ai fini di incremento della produttività individuale e generale.
Insomma, mentre il Welfare contrattuale “sostitutivo” evoca egoismi di piccoli gruppi, e spesso in competizione tra loro, quello “integrativo” evoca piuttosto prospettive di miglioramento qualitativo non competitivo e pertanto non minaccioso per il valore dell’eguaglianza. Beninteso, il confine tra sostituire e integrare può essere di non facile individuazione e può essere anche mutevole nel tempo, cosicché appare opportuno conservare nel confronti del fenomeno un atteggiamento criticamente disponibile, scevro da ideologismi ma sempre pronto a sollevare lo sguardo dal particolare per poterne apprezzarne la collocazione nel sistema sociale più complessivo.
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