Tre casi in una sola settimana. E probabilmente, se si andasse a guardare meglio, se ne troverebbero tanti altri. Il più noto è sicuramente quello relativo alla decisione della Cassazione di far cadere ogni accusa nei confronti del sindaco di Riace Mimmo Lucano, incolpato di vari illeciti, compiuti – secondo l’accusa – per irrobustire il suo fortunato modello d’integrazione dei migranti. Ma non meno eclatante è stato l’andamento della presunta violenza sessuale subìta dalla ragazza ventiquattrenne nell’ascensore della circumvesuviana a Napoli, con un quadro accusatorio completamente capovolto nel giro di qualche settimana. Confinato alle cronache locali, infine, il j’accuse di un luminare dell’oncologia italiano, fatto rientrare come professore ordinario a Firenze attraverso chiamata diretta, che nel giro di due mesi decide di andarsene negli Stati Uniti ritenendo l’organizzazione della sanità italiana irriformabile, ma – si scopre poi – avvistato sulle rive dell’Arno per soli 24 giorni.
Cosa hanno in comune queste storie? Hanno avuto una copertura giornalistica e una conseguente lettura da parte dell’opinione pubblica fortemente connotata dallo spirito del tempo, o forse sarebbe meglio dire dalla banalità di non voler contraddire il senso comune.
Per quanto concerne Lucano, Francesco Merlo su “la Repubblica” del 5 aprile lo ha ammesso con onestà: finanche chi fra noi aveva in simpatia Mimmo Lucano e le sue scelte politiche si è sentito in dovere di alzare il sopracciglio nei confronti di comportamenti giudicati leggeri, poco responsabili, benché con l’attenuante del fin di bene. Sull’altro versante, invece, il caso Lucano è servito per legittimare la politica governativa dell’anti-buonismo e mettere alla berlina tutti i benpensanti con la fissa dell’accoglienza.
Sul caso della presunta violenza sessuale, premettendo che si tratta di una vicenda ancora tutta da chiarire, colpisce come la scarcerazione degli accusati non abbia prodotto il minimo sospetto nella stampa e fra i commentatori per un comportamento – da parte dei giudici – ben diverso rispetto alla cautela con cui procedono per questo odioso crimine. Ne sono conseguiti articoli e servizi sulla ragazza offesa, violentata anche simbolicamente da una giustizia cieca, con interviste a tutta pagina e la pubblicazione di una sua lettera in bella evidenza; quindi, il “vergogna” strillato dal vicepremier Di Maio – sugli immancabili social – e le non meno forti accuse ai giudici da parte di altri politici della minoranza.
Analogamente, l’amarezza dell’oncologo ferito dalla burocrazia italiana, a cui ha repentinamente fatto da coro la costernazione e la preoccupazione delle opposizioni per una sanità toscana ormai alla deriva, è stata sparata a tutta pagina dalle cronache fiorentine, che soltanto tardivamente hanno registrato le posizioni di Regione e Università sui processi avviati per rispondere alle esigenze dell’impaziente medico.
Già mi sembra di sentirle le repliche dei giornalisti: noi ci limitiamo a registrare i fatti! Come se non si sapesse che la questione concerne proprio le modalità con cui tali fatti sono presentati. Piuttosto il problema risiede proprio nell’irriflessiva immediatezza con cui si pubblicano le notizie, senza un minimo riscontro. Sarebbe bastato fermarsi un attimo e chiedersi: ma come mai i giudici hanno deciso di scarcerare gli “stupratori”? Oppure: perché le istituzioni toscane, dopo aver fatto di tutto per far rientrare cotanto “cervello”, decidono poi di lasciarlo al proprio destino? In altri termini, praticare banali verifiche delle notizie, interpellando più fonti.
Ma non c’è tempo. Il giornalismo dell’immediatezza impone e, soprattutto, s’impone d’ingessarsi attraverso discorsi circolari, che ribadiscono di continuo le sensazioni prevalenti: se è indagato allora vuol dire che anche il buon Lucano i suoi scheletri nell’armadio li ha; siamo davanti all’ennesimo caso di malagiustizia, mentre una ragazza è ancora in lacrime per il più abietto dei soprusi subìti, i suoi aguzzini circolano indisturbati; eccoci davanti alla solita impacciata ed elefantiaca burocrazia italiana che preferisce difendere i mediocri e lascia che i migliori se ne vadano.
Cornici interpretative così prevalenti da non far ritenere possibile contraddirle; soprattutto se legittimano scelte da compiere al volo perché l’attualità incalza, perché bisogna dare con sollecitudine non soltanto i fatti, ma anche il contesto entro cui interpretarli e farli commentare. E, infatti, tali commenti non mancano, da parte di chiosatori ancora più solerti, che non aspettano nemmeno che il post sia pubblicato, il tweet inviato, per correre subito a far sentire la loro voce, tanto più forte quanto più grande è l’indignazione, a cui segue – quando si tratta di decision maker – la promessa di provvedimenti immediati che subito invertiranno il corso del malcostume imperante.
Non è certo per rimpiangere i bei tempi in cui politici del calibro di Andreotti, Forlani o De Mita potevano parlare per ore senza dir niente; ma forse è lecito consigliare di rileggersi un sapido corsivo di Enzo Biagi, in cui raccontava di essersi rifiutato di commentare la tragica vicenda di una bambina rimasta per ore sulla corsia di soccorso dell’autostrada a implorare i bolidi sfreccianti affinché si fermassero a soccorrere il babbo, colpito da infarto mentre guidava, certo che nel giro di pochi giorni la notizia sarebbe stata smentita, perché inventata o, comunque, esagerata (le fake news non sono nate ieri!).
La velocità della comunicazione digitale e il continuo incombere dei social costituiscono un’ottima giustificazione per tale immediatezza dell’ovvietà. Ma sarebbe una giustificazione soltanto parziale. Già più di vent’anni fa Paolo Murialdi parlava di “giornalismo-pallavolo”, in cui il giornalista si limita soltanto a registrare fatti, dichiarazioni e opinioni che rimbalzano di qua e di là, ritirandosi progressivamente da ogni tentativo di dare forma e senso alla marea di news saltellanti.
Se si limita a sollecitare e solleticare la convenzionalità, il giornalismo tradisce quel ruolo di responsabilità sociale che lo rende una delle più importanti istituzioni esistenti. Finisce per contribuire pesantemente a determinare un’opinione pubblica irriflessiva, in cui il facile giudizio e lo stereotipo precedono la verifica dei fatti, con l’inevitabile conseguenza che ognuno di noi ripara nei bunker delle proprie convinzioni, quelle che Cass Sunstein chiama eco chambers. Camere dell’eco dove ci ripetiamo ciò che vogliamo sentire, fino a convincercene immarcescibilmente. Ci trasformiamo tutti in miliziani del nostro punto di vista e ci rispecchiamo negli opinion maker più faziosi, che non a caso spopolano sui media, con il loro bagaglio di idee definitive, posizioni nette; mai sfiorati dal bagliore del dubbio.
Insomma, si sta palesando una grottesca eterogenesi dei fini: in quella che è stata definita modernità riflessiva, caratterizzata dalla tensione di tutti noi ad agire dopo aver monitorato l’ampio arco delle possibilità e aver studiato la gran quantità di dati a disposizione (finanche per decidere se portare l’ombrello quando usciamo di casa), ci troviamo a muoverci in una sfera pubblica contraddistinta da discorsi sempre più irriflessivi, pregna di ondate emotive, fondate su umori radicali; basati, purtroppo, soltanto sui piedi d’argilla di un senso comune acriticamente confermato dall’ideologia dell’immediatezza, che non riusciamo a ricordare bene quando ci si è imposta.
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