Dopo avere considerato per decenni il Muro di Berlino come simbolo dell’arretratezza culturale e ideologica, oggi scopriamo che l’Europa in cui abbiamo creduto è piena di barriere, filo spinato e cemento armato.
La strada compiuta dai primi accordi del dopoguerra verso una vera unione politica è tanta, forse non è mai stata sottolineata a sufficienza e ha sofferto dello stile così poco amichevole uscito dalle scrivanie di cristallo di Bruxelles. Tuttavia, il senso di appartenenza a un’idea davvero larga e comune, culturale ancor prima che politica, scompare di fronte ai drammi umanitari prodotti dalle nostre frontiere stato-nazionali.
Che fine ha fatto l’Europa unita che avevamo immaginato di poter realizzare, seppure poco alla volta? I due punti di riferimento che ci hanno permesso di sentirci parte di una entità più grande, non solo geografica, in certi momenti quasi di una comunità – Schengen e la moneta unica – sono a rischio. Ogni giorno emergono fratture e disconnessioni gravi, con alcuni Paesi membri sempre meno disponibili a ragionare in termini di politiche comuni.
Eppure negli anni gli appelli alla necessità di una maggiore integrazione non sono mancati. Ma sottovalutando le conseguenze del populismo e lasciando incompiuta la riunificazione europea post-’89, siamo arrivati alla situazione attuale.
Con i muri e le barriere ottieni anche una rimozione culturale dell’altro. Alla fine della guerra fredda, infatti, quando l’Europa si è ricomposta abbiamo fatto una fatica tremenda a ritrovarci. Basti pensare alle modalità con cui si è ottenuto l’allargamento dell’Ue: sono serviti cinque anni solo per formulare i criteri di Copenaghen, vale a dire una promessa vaga e scontata di integrazione europea, mentre da decenni i Paesi centroeuropei attendevano il loro “ritorno in Europa”. Mentre l’Europa post-comunista sprofondava nella cosiddetta transizione pagando un prezzo altissimo in termini sociali, Unione Sovietica e Jugoslavia si disfacevano in solitudine. Solo la Germania si affannava, ma per compiere la sua stessa riunificazione.
Negli anni Novanta, abbiamo ampiamente deluso le aspettative dell’Est anche con l’accoglienza riservata ai profughi balcanici e ai migranti interni alla casa comune europea: per paura dello scafista albanese o dell’idraulico polacco.
Ventisei anni dopo la tremenda frattura tra l’Est e l’Ovest è ancora da sanare. Continuiamo a ignorare tutta la storia politica, economica e sociale dell’Europa centro-orientale e non abbiamo affatto rielaborato quel fallimento idelogico.
Incompiuta la riunificazione culturale dell’Europa, oggi ci sentiamo assediati dal mondo esterno e ci ritroviamo in balia della paura: della competizione economica con i Paesi emergenti, del terrorismo internazionale, dello scontro militare con la Russia, dei rifugiati. Paura, sostanzialmente, di perdere il benessere conquistato.
Da decenni parliamo di globalizzazione, ma per rispondere alle minacce e alle sfide transnazionali a essa collegate (crolli in borsa, terrorismo, guerre, migrazioni) ci illudiamo ancora del rifugio offerto dalla comunità nazionale e della protezione dei muri. Evidentemente, il contagio economico della crisi del 2008 non ci è bastato. Pensiamo seriamente di poter evitare da soli le conseguenze delle guerre in Paesi che immaginiamo ancora lontani. Ma come poteva rimanere localizzato in Turchia il problema della gestione di milioni di profughi dalla Siria? E come potevamo rimanere estranei alla dissoluzione dell’Iraq – che per altro abbiamo provocato noi con una guerra pretestuosa?
Impreparati a tutto ciò che richiede interventi politici sovranazionali o transnazionali, ci mostriamo sempre pronti alla bisogna a calpestare i principi liberali predicati fuori casa. Ogni giorno accettiamo gravi violazioni dei diritti umani, ignorando del tutto gli insegnamenti del recente passato europeo. Gli albanesi che morivano a migliaia per attraversare l’Adriatico negli anni Novanta sono arrivati comunque in Italia e oggi costituiscono una comunità bene integrata di mezzo milione di persone. Quando perdono il lavoro tornano a emigrare altrove: in Canada, in Svizzera, in Germania. Perché l’immigrazione si sposta là dove c’è crescita economica.
Dalla società civile europea arriva la spinta a trovare soluzioni impellenti per aiutare chi fugge a rischio della vita. Non saranno le barriere, il cemento e il filo spinato a salvare gli europei, ma la capacità di dare risposte comuni e immediate alla crisi dei profughi cogliendo la sfida umanitaria come occasione di crescita politica.
Non c’è tempo da perdere: ragioniamo subito sulle proposte concrete di revisione delle procedure per la richiesta di asilo e lavoriamo per rendere possibile la domanda di accoglienza nelle delegazioni Ue nei Paesi a rischio o nei primi Paesi di approdo. Le soluzioni provvisorie, incomplete, rendono ancora più precaria la gestione di un evento di cui possiamo prevedere la portata storica ma non le conseguenze umanitarie, politiche ed economiche. E, naturalmente, accrescono la forza dei nazionalismi e costituiscono un carburante straordinario per i populismi.
La sfida migratoria ci pone davanti a un interrogativo simile a quello che Renan si pose a fine Ottocento a proposito della nazione: se l’Europa sia tenuta insieme solo da una comunione di interessi o se conti ancora qualcosa anche una vera comunanza di princìpi.
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