«Io non mi scuso di essere credente e mi rifiuto di pensare che questo mi obblighi a dimostrare di continuo la credibilità della mia capacità intellettuale», ha scritto Michela Murgia in God Save the Queer, il suo Catechismo femminista. La frase è stata ripresa in rete dopo la sua morte, il 10 agosto 2023, di cui Murgia aveva parlato anche in un’intervista di alcuni mesi prima sul «Corriere della Sera». Quelle parole ribadivano la fede cattolica della scrittrice di origini sarde, espressa a partire dai suoi libri, ma anche nei suoi numerosi incontri pubblici.
La morte di Michela Murgia ha riportato all’attenzione generale i temi del suo lavoro e impegno intellettuale, dai femminismi (in particolare il femminismo intersezionale) alla lotta contro le discriminazioni, soprattutto di genere; dai diritti delle persone Lgbt+ al ruolo delle donne nella Chiesa e nella società; alle famiglie queer. La sua parabola professionale ed esistenziale pone all’Italia e al cattolicesimo italiano diverse domande sulle modalità e sulla permanenza di voci capaci di parlare a tutti e di argomenti delicati o controversi, non solo i più noti.
Anzitutto per motivi storici, che risalgono alla soppressione delle facoltà teologiche nelle università di Stato non molti anni dopo l’Unità d’Italia (1873) e che coinvolgono il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), l’Italia non conta su una tradizione teologica accademica paragonabile a quella di Paesi come Francia e Germania e ha avuto, e continua ad avere, una teologia professionalmente più clericale e al maschile di ogni altro Paese occidentale. Il cattolicesimo italiano accumula biografie illuminate da una fede vissuta che ne hanno sottolineato la dimensione popolare e pastorale, come nelle esperienze storiche di Balducci, La Pira, Milani, Turoldo, Vannucci e altri identificati in seguito come «folli di Dio». È questa una peculiarità del contesto italiano sia rispetto al genere di teologia praticata, sia per quanto concerne i rapporti con il magistero, ma è anche un aspetto chiave per comprendere il mainstream informativo e mediatico del pensiero sulla religione, in termini sia di spazi sia di meccanismi di accesso e di permanenza nel tempo.
Complici l’eredità storica, la presenza del Vaticano, la geografia sociale e culturale soprattutto tra XIX e XX secolo, il mainstream religioso italiano evoca quasi soltanto vaticanismo, oppure una teologia pubblica che spesso coincide con riflessioni spirituali di tipo auto-consolatorio, mentre gli unici esperti sembrano gli storici, per quanto a volte noncuranti del divorzio con la teologia e i teologi (potrebbe dirsi lo stesso a parti invertite, ma le ragioni sono differenti). È invece ai margini del mainstream extra-ecclesiale ed extra-accademico che l’Italia ha conosciuto grandi figure che hanno parlato di sacro e di religione al grande pubblico italiano: da Calasso, Pasolini, Quinzio, fino a cantautori come Battiato. Anche per questo motivo, il mainstream italiano è apparso più di altri legato al processo di appropriazione creativa che accompagna la presa di parola e la sua diffusione nella sfera pubblica, perché la scomparsa del discorso teologico ed ecclesiale da quella sfera favorisce in un verso e nell’altro processi di «bricolage spirituale». Ciò implica il bisogno di interrogarsi sulla necessità, l’opportunità e i modi di stare nel mainstream della comunicazione, nella consapevolezza dei rischi esistenti in termini di unilateralismo e di semplificazione. Ma è evidente che occorra tenere in conto anche i vantaggi.
il mainstream religioso italiano evoca quasi soltanto vaticanismo, oppure una teologia pubblica che spesso coincide con riflessioni spirituali di tipo auto-consolatorio
Il contesto italiano soffre in modo del tutto singolare l’assenza pubblica della teologia come sapere accademico e l’assenza di una teologia pubblica nel più vasto mainstream comunicativo, fatto di spazi che non siano solo le riviste cattoliche e non cattoliche o gli editori laici disposti a pubblicare libri di teologia (comunque pochi), ma anche le associazioni o le fondazioni che investono in cultura e promuovono la formazione e discussione su argomenti di rilevanza pubblica. D’altra parte, è evidente come anche il mondo laico abbia accettato una «divisione del lavoro» che lascia nelle mani delle istituzioni ecclesiastiche la questione della teologia nello spazio pubblico, e come esista un ambito trascurato in Italia e nel cattolicesimo italiano quale l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole (di cui Murgia stessa era stata docente), che potrebbe essere un’occasione per investire sull’alfabetizzazione religiosa e teologica di studenti e studentesse, divenendo oggetto di maggiori attenzioni da parte della Chiesa e dello Stato (per esempio in termini di coinvolgimento di altre confessioni religiose, se non di parziale o totale riforma del modello in vigore).
Questa peculiarità del contesto italiano spiega, almeno in parte, il contributo di Michela Murgia e il suo lascito alla società e alla Chiesa: la capacità e il bisogno di non accettare in modo soltanto acritico la declinazione culturale non militante del cattolicesimo italiano, che è stata un antidoto di fronte agli eccessi identitari nella visione e nella pratica della fede (come negli Stati Uniti o in Francia), ma può diventare anticamera del cosiddetto analfabetismo religioso, un fenomeno in crescita, e che vede l’Italia tra i Paesi più in difficoltà.
La penetrazione del mainstream culturale non confessionale da parte di Murgia va considerata anche come un esempio di teologia pubblica e di discorso cattolico pubblico, indipendentemente dai giudizi sulla sua aderenza alla lettera del Catechismo della Chiesa cattolica: non solo perché nella storia della Chiesa questo criterio non è mai stato dirimente nel processo di continuazione della tradizione (non sono pochi i casi di riabilitazione di soggetti già ritenuti eterodossi), ma anche in virtù dell’impossibilità, nel cristianesimo, di giudicare la coscienza e il rapporto personale di ciascuno con il proprio Dio.
La sua penetrazione del mainstream culturale non confessionale va considerata come un esempio di teologia pubblica e di discorso cattolico pubblico, indipendentemente dai giudizi sulla sua aderenza alla lettera del Catechismo della Chiesa cattolica
Il riconoscimento teologico ed ecclesiale nei confronti di Murgia è un atto dovuto nei confronti della scrittrice e intellettuale nota anche per testi come Ave Mary, un libro sul processo di «invenzione» ecclesiastica della donna. Ma è allo stesso tempo un atto dovuto alla Chiesa come comunità che si interroga e ricerca forme del credere sempre più adeguate in relazione ai vari momenti della storia. Lasciare l’intero lavoro e la vicenda di Michela Murgia a recezioni soltanto extra-ecclesiali oppure rivendicative contro il sistema politico e teologico ecclesiastico sarebbe sbagliato per la rinuncia all’intelligibilità della tradizione e della dottrina cristiana, e alla fede in termini di risposta agli appelli di Dio che si manifestano nella storia e nelle culture umane. Una recezione teologica ed ecclesiale del contributo di Murgia riguarda il rispetto del suo pensiero credente, già riconosciuto quale socia onoraria del Coordinamento delle teologhe italiane. Deve essere riconosciuto a Murgia l’aver fatto ciò che è facilissimo fare oggi – parlare alla Chiesa o parlare della Chiesa – ma soprattutto ciò che è difficile sempre: parlare in quanto Chiesa.
Nell’Italia di oggi, governata da una destra che «naviga in un Paese ormai totalmente immerso nella post-cristianità e non può andare oltre gli enfatici riferimenti retorici per provare a trasformarli in discorsi identitari», la parola di Murgia ha costituito lo sforzo di strappare l’esclusiva di un discorso cattolico appaltato a una parte sola dello spettro politico. Ciò che Murgia dice alla Chiesa e alla società è un richiamo alla cattolicità dell’una e alla democraticità dell’altra.
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