A oltre due mesi dall’avvio della guerra in Ucraina, mi pare opportuna una riflessione sulla qualità del dibattito pubblico nel nostro Paese. Lasciando da parte le riviste di approfondimento, che si rivolgono a un pubblico piuttosto ristretto, gli interventi che ho avuto modo di seguire su mass media e social possono essere raggruppati in due categorie. Da un lato ci sono i contributi informativi, di taglio sia descrittivo sia analitico. Dall’altro ci sono i contributi politici, di taglio normativo-prescrittivo.
I primi sono mirati ad aumentare la comprensione di quanto sta accadendo, fornendo mappe conoscitive e bussole concettuali per orientarsi. I secondi invece hanno uno scopo differente: servono a dare direzioni di marcia (tanto per rimanere in tema). Ci dicono cosa dobbiamo fare, adesso e nel prossimo futuro, a partire dai nostri valori e/o interessi economici e geo-politici.
Entrambi questi contributi sono necessari in un dibattito pubblico. Dobbiamo però essere consapevoli che seguono logiche e hanno finalità diverse. I contributi informativi forniscono elementi fattuali e spiegazioni falsificabili. In altri termini, seguendo certi procedimenti, possono essere sottoposte a una verifica concernente la veridicità e l'appropriatezza degli enunciati. I secondi, invece, hanno una valenza performativa di tipo prevalentemente strategico. Sono, cioè, mirati a fare prevalere il proprio punto di vista. Niente di scandaloso. Il dibattito pubblico serve anche a orientare le opinioni di chi ascolta e, direttamente o indirettamente, a influire sulle posizioni del nostro governo. È bene perciò che i contributi politici ci siano e siano plurali. Questo è uno dei cardini costitutivi delle liberal-democrazie.
Alla luce di queste premesse è inevitabile che gli «esperti», insieme agli opinion-makers, popolino questi dibattiti. In un mondo ideale, i primi dovrebbero contribuire a informare e i secondi a formare l’opinione pubblica. È ovvio che si tratta di una distinzione idealtipica e che la realtà è sempre più sfumata. Tuttavia, quando i codici e le finalità comunicative si confondono troppo vistosamente, la qualità del dibattito pubblico ne risente negativamente. Questa è l’idea che mi sono fatto seguendo le polemiche suscitate dagli interventi di un professore universitario, Alessandro Orsini, in alcuni talk televisivi. Prendo come spunto questo caso, non tanto per associarmi alla campagna di santificazione o di denigrazione in corso, ma solamente perché il «caso Orsini» – essendo anche io un sociologo – mi interroga da vicino sul ruolo e sulla postura pubblica degli accademici. E sull’uso – spesso strumentale e orientato all’audience – che i media televisivi fanno di alcuni (presunti) esperti. Per ancorare le mie riflessioni in modo puntuale, mi sono riascoltato una delle prime uscite televisive di Orsini sul tema della guerra nella trasmissione Piazza Pulita del 3 marzo scorso.
All'interno del dibattito pubblico la distinzione tra esperti e opinion-makers tende a sfumare, andando a compromettere la qualità della discussione stessa
Sgombero subito il campo da possibili equivoci. I docenti universitari, così come qualsiasi tipo di esperto, hanno il diritto di esprimere nei dibattiti pubblici le opinioni che ritengono più opportune. Mi è parsa perciò del tutto inopportuna la presa di posizione dell’Università Luiss che, immediatamente dopo quella trasmissione, ha emesso un comunicato con un evidente retrogusto di censura e di avvertimento nei confronti del proprio docente. Ciò premesso, a me pare che il modo di proporsi di Orsini tenda a indurre una confusione eccessiva tra il ruolo dell’esperto e quello dell’opinion-maker. Per spiegare i corto-circuiti innescati dalla fusione di questi due ruoli vediamo come questa sia avvenuta nella trasmissione in questione.
Nella prima parte del suo intervento, Orsini ha indossato in maniera assertiva la casacca dell’esperto, anzi, dello «scienziato», dicendo che «in base alle leggi ferree delle relazioni internazionali» la guerra in Ucraina era assolutamente prevedibile. Mi sia consentito un piccolo inciso: era davvero tanto che non sentivo parlare di «leggi ferree» nelle scienze sociali. Mi richiamano subito alla mente una concezione positivistica della scienza di taglio ottocentesco, che induce a ritenere l’esperto portatore di un sapere superiore e «assolutamente oggettivo». Peccato che nel confronto in corso tra gli esperti di relazioni internazionali e di studi strategici queste presunte leggi ferree non siano affatto così indiscusse. Nei dibattiti accademici a cui ho partecipato, questi studiosi hanno più volte confessato sorpresa per la guerra in Ucraina e parlato di un «comportamento inaspettato» di Putin. Per i docenti di cui ho conoscenza diretta (evidentemente più confusi di Orsini) non era affatto «scientificamente necessario» che l’invasione dovesse avvenire. I dubbi aumentano, scorrendo l’elenco delle principali pubblicazioni scientifiche indicate dallo stesso Orsini sul sito della Luiss, dal quale si desume che si tratta di un esperto di terrorismo più che di relazioni internazionali.
Il patatrac però avviene nella seconda parte della trasmissione. Sfruttando l’effetto alone che gli deriva dalla qualificazione di esperto, a questo punto, Orsini indossa la veste del moralista e del pacifista. Inizia col dire che l’Europa ha sulla coscienza molti morti siriani e che Putin è stato costretto a intervenire in Siria, poiché l’Occidente aveva tentato di sottrargli un alleato strategico. Continua, poi, mobilitando altre categorie assiologiche. Ad esempio, dichiara che è «immorale» dare le armi agli ucraini ma rifiutare loro la no fly zone, e si mette perfino a disputare su chi abbia il diritto (morale) di parlare per i bambini ucraini. Infine, dichiara che, in quanto pacifista, il suo obiettivo è salvare la vita degli ucraini, che dovrebbero riconoscere la sconfitta (e arrendersi). Perché non esiste nessuna possibilità al mondo che la Russia perda questa guerra. Un altro piccolo inciso: vi immaginate se il governo ucraino o quello italiano avessero prontamente seguito i suggerimenti dell’esperto? Oggi, per il principio delle «profezie che si autorealizzano», l’Ucraina sarebbe completamente in mano russa. Ma non è questo il punto che voglio sostenere qui. Mi chiedo piuttosto a che titolo Orsini sia intervenuto nella seconda parte della trasmissione. In veste di esperto o di opinion maker? Su che basi possiede tanta sicurezza? In virtù delle leggi oggettive della storia, della politica oppure della morale? Chi ha letto, anche superficialmente, Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber (trad. it. Einaudi, 1983) si rende immediatamente conto del gran guazzabuglio in cui si è andato a ficcare Orsini, incappando in una sorta di «profezia formulata dalla cattedra».
Aggiungo che Orsini parla spesso di chi non la pensa come lui – e lo attacca – come di un nemico. Ci sta, nel dibattito politico. C’è però da chiedersi se una postura così assolutizzante e dogmatica nei confronti delle proprie posizioni – che pare disconoscere la pluralità delle metriche assiologiche e l’incommensurabilità di certi valori – non contraddica la pretesa tipicamente «pacifista» di mettersi in ascolto delle ragioni degli altri. Chi ritiene i valori di libertà e di auto-determinazione dei popoli imprescindibili per vivere una vita dignitosa (vi ricordate le lettere dei condannati a morte della resistenza europea?) e decide sulla base di questi valori di sostenere la resistenza armata degli ucraini, diventa automaticamente un guerrafondaio? Temo che questa postura dogmatica produca un effetto tossico (spero) non desiderato dallo stesso Orsini: la «militarizzazione» del dibattito pubblico sulla guerra, con la contrapposizione politica tra amici e nemici d’impronta tipicamente schmittiana.
Credo molto nella vocazione pubblica delle scienze sociali. Per gli accademici questo significa entrare in una «conversazione con pubblici esterni», pur mantenendo un forte aggancio con il proprio sapere professionale (M. Burawoy, For Public Sociology, «American Sociological Review», 2005, vol. 70, pp. 4-28). E, tuttavia, questo va fatto con cognizione, sapendo che quando si entra in queste arene pubbliche si devono intavolare delle discussioni. Uso questo termine non a caso, consapevole della sua ambivalenza. Perché discutere significa avviare un esame congiunto e approfondito di una questione, scambiandosi opinioni e punti di vista. Implica perciò anche esprimere obiezioni, dubbi, riserve, aprendosi alla possibilità di contrasti e disaccordi. Ma mantenendo sempre aperto il dialogo e il contraddittorio che sono tipici del discorso scientifico e lo sono ancor di più quando si varca il confine dell’accademia e si entra in una sfera pubblica pluralista. Cioè quando il ruolo dell’esperto tende a ibridarsi con quello dell’opinion-maker.
Mantenere il contraddittorio e l'apertura del dialogo è fondamentale in un dibattito. Specialmente se si varca il confine dell’accademia e si entra in una sfera pubblica pluralista
Si tratta di un equilibrio difficile da trovare, me ne rendo conto. Proprio per questo gli accademici, specie quelli che hanno una vocazione pubblica, dovrebbero interrogarsi criticamente. A questo proposito, io trovo ancora oggi molto convincenti le cose scritte da Charles Wright Mills riguardo ai valori che vanno trasmessi ai giovani ricercatori che si apprestano a praticare l’«arte intellettuale» delle scienze sociali (trad. it. L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, 2018). A partire dal rifiuto di accettare che il significato politico (o l’uso pubblico) del loro lavoro sia «determinato da accidenti dell’ambiente» o che altri decidano, in base ai loro scopi, l’uso che deve esserne fatto. I valori a cui Wright Mills fa riferimento sono tre.
Il primo è «il valore della verità, del fatto». Specialmente in un’epoca come quella attuale, di fake news e populismi demagogici, sottoporre a controllo scientifico e fattuale le proprie ipotesi e i propri convincimenti assume una specifica connotazione politico-culturale. Il secondo è la rilevanza della ragione. La ricerca rigorosa acquista ulteriore dignità se si applica allo «studio di problemi di sostanza», se affronta cioè temi socialmente importanti e se serve a riaffermare il possibile «ruolo della ragione negli affari umani». Il terzo è il valore della «libertà umana» sia come mezzo della ricerca – che richiede sempre indipendenza e autonomia di giudizio – sia come suo fine. Poiché le scienze sociali devono essere mirate a potenziare la capacità riflessiva degli uomini per plasmare la propria storia in una prospettiva emancipativa.
Nel caso specifico, per me, questo implica rispettare profondamente la decisione del governo e dei cittadini ucraini di resistere in armi all’aggressione di una superpotenza. Dopo la sconfitta francese e americana in Vietnam, dopo quella russa e americana in Afghanistan, quale legge pseudo-scientifica ci dice che non possano avere successo?
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