Tra carisma personale e normalità politica. Le elezioni locali del 3 maggio nel Regno Unito hanno restituito un esito simile ad altre elezioni sul continente, con una significativa eccezione: Boris Johnson. Il candidato conservatore è stato infatti riconfermato sindaco della città di Londra, ma ottiene una vittoria personale in una competizione personalizzata, mentre tutto attorno si sgretola il consenso per la coalizione di governo. I londinesi hanno votato Boris, il politico simpatico; si sono fatti persuadere dal leader carismatico, che ha saputo togliersi di dosso l’etichetta di conservatore ricco e aristocratico uscito da Eton e Oxford (dove era compagno di David Cameron, suo amico-rivale), ma senza rinunciare alle sue idee chiare e radicali. La contesa di Londra non è stata decisa dalle sue posizioni da «vero Tory», contro l’Europa e le tasse — come la frangia destra del suo partito vuole far credere — né dalle sue proposte di campagna elettorale o dai risultati del suo primo mandato, bensì dal suo grande talento politico e dalla sua brillante personalità.
Su questo terreno lo sfidante Ken Livingston non ha avuto chances. Il sindaco rosso che aveva governato la città dal 2000 al 2008, guidandola in un processo di rinnovamento e sviluppo, non è stato in grado di evitare la sua seconda sconfitta. In questa sfida di personalità, Livingston è stato percepito come «il vecchio Ken», un personaggio superato e tragico nel suo malinconico tentativo di ripetere un’esperienza già definitivamente chiusa. Il suo risultato finale, pari al 48,5% di preferenze, è in crescita rispetto alla precedente elezione, ma impallidisce di fronte al +13% del Labour nella elezione della stessa Assemblea di Londra, in cui conquista quattro nuovi seggi (mentre Johnson vince con il 51,5% con il suo partito fermo al 32%). Si può quindi concludere che il partito laburista abbia scelto il candidato sbagliato, in una nomina oscurata dalla competizione per la leadership nazionale nel 2010 ed eccessivamente influenzata da attivisti e sindacati.
La vittoria di Boris Johnson ha permesso dunque al partito conservatore di salvare la faccia, ma non è sufficiente a compensare la disfatta in ogni altro angolo del Paese. Il partito liberal-democratico, junior partner della coalizione di governo, continua la sua caduta, arrivando quarto a Londra e perdendo il simbolico consiglio municipale di Cambridge e un totale nel Regno di 336 seggi, raggiungendo il minimo storico dalla sua fondazione; tutto per essersi «sporcato le mani», passando da partito di opposizione a forza di governo. Rispetto all’anno scorso, i Tories non sono riusciti a usare i Lib-Dem come scudo contro il malcontento e a beneficiare del loro calo; al contrario, con una perdita di 400 seggi sono stati puniti in prima persona per un’esperienza di governo segnata da scandali e recessione. Come se non bastasse, il premier David Cameron ha subito delle sconfitte personali, dai seggi persi nella sua constituency dell’Oxfordshire conservatore, alle bocciature dei referendum per l’elezione diretta del sindaco in dieci città, immaginati come il cavallo di Troia per espugnare le roccaforti laburiste del Nord (ha votato «sì» soltanto Bristol, forse per reazione ai Lib-Dem locali che appoggiavano il «no»). Mentre la vittoria a Londra rafforza Boris Johnson come suo principale rivale alla leadership, Cameron ha più che mai bisogno di una svolta nella politica del suo governo, ma già il prossimo «discorso della Regina», fra economia e riforma della camera dei Lord, rappresenta uno scoglio.
Vincitore della giornata elettorale è allora il Labour, che supera le aspettative conquistando 823 nuovi seggi, 32 nuovi consigli, fra cui Birmingham e Oxford, e i primi sindaci di Liverpool e Salford. Ma ciò che colpisce di più è l’estensione della vittoria: non solo trionfa in Galles, dove prende fra le altre Cardiff e Swansea, ma dilaga nelle regioni inglesi tradizionalmente conservatrici del Sud e dell’East Anglia, acquisendo il controllo dei maggiori centri urbani come Southampton, Plymouth e Norwich. In Scozia, dove era previsto un suo ulteriore arretramento, il partito aumenta invece i propri consensi e mantiene il controllo di Glasgow, mentre lo Scottish National Party di Alex Salmond cresce e conquista Angus e Dundee, ma non riesce a incassare il trionfo sperato in vista del referendum per l’indipendenza del 2014. Nel complesso, la vittoria del partito laburista alle elezioni locali, dove raccoglie circa il 38% dei voti, non preannuncia una vittoria certa alle prossime elezioni politiche, ma rappresenta una importante inversione di rotta e una carica di fiducia per Ed Miliband, il quale, guardando al di là della Manica, può forse concludere che, se il carisma di Boris Johnson aiuta, anche una «normalità» socialista potrebbe bastare.
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