La tragica estate dei braccianti agricoli in Puglia e Basilicata è finalmente terminata. Al lungo elenco di caduti sul lavoro di luglio e agosto – tre italiani, un sudanese e un tunisino –, si sono aggiunte a fine settembre due altre morti: l’uccisione di un bracciante burkinabé accusato di un furto di meloni nel foggiano e il suicidio di un ghanese nel “ghetto” di Boreano in Basilicata. Morti che hanno mostrato le drammatiche condizioni di vita e di lavoro dei braccianti, stranieri ma non solo, e stimolato un dibattito pubblico sulla questione del caporalato. A inizio settembre, i ministri Martina, Poletti e Orlando hanno annunciato una serie di azioni finalizzate alla lotta contro il caporalato, definita una “nostra priorità assoluta”.
Ad esempio, oltre i caporali, si propone (giustamente) di colpire le aziende agricole. E si prevede “la confisca del prodotto o del profitto di reato”. La speranza è che queste misure dissuadano gli agricoltori dall’assumere i braccianti ricorrendo al caporalato. Tuttavia, la gran parte di queste azioni rischia di non cogliere il bersaglio. Si tratta infatti per lo più di provvedimenti repressivi, legati a una lettura del caporalato a mio parere troppo semplicistica.
Il caporalato è un sistema (illegale) di intermediazione di manodopera nel quale il mediatore detrae una quota del salario del lavoratore assunto. Associare questo odioso fenomeno alla schiavitù o alle mafie, come accade spesso, non considera alcuni aspetti fondamentali. In molte zone del Sud Italia, i caporali forniscono – naturalmente a pagamento – servizi indispensabili per le aziende agricole e per gli stessi braccianti: il trasporto nei campi e in altri luoghi (negozi, ospedali ecc.), la supervisione del lavoro, il reperimento e la gestione dell’alloggio, la fornitura di cibo e acqua, talvolta anche il viaggio dal Paese d’origine. Si pensi alla raccolta del pomodoro da industria, per la quale, laddove non è meccanizzata, è necessario organizzare e trasportare in tempi brevissimi decine di squadre composte ciascuna da 20-30 operai. I caporali sono gli unici a fornire squadre efficienti, economiche e disciplinate. A voler confiscare il prodotto del reato, bisognerebbe sequestrare forse la metà dei due milioni di tonnellate di pomodori da industria raccolti nel Sud.
Alle misure repressive va aggiunto qualcos’altro. In primo luogo, sono necessarie azioni che rendano i braccianti meno vulnerabili e dipendenti dai caporali.
I lavoratori migranti sono deboli a causa del loro statuto giuridico: bisognerebbe allora modificare la legge sull’immigrazione. In agricoltura è estremamente difficile ottenere contratti di lavoro stabili che mettano al riparo dal rischio di perdere il permesso di soggiorno. Inoltre, i braccianti stagionali sono vulnerabili perché spesso vivono in “ghetti” immersi nelle campagne, il che rende i caporali indispensabili per qualsiasi spostamento. Occorrerebbero allora politiche per la casa e per l’accoglienza dei braccianti nei centri abitati e, contemporaneamente, un potenziamento dei trasporti pubblici, anche verso i luoghi di lavoro.
Alle misure repressive va aggiunto qualcos’altro. In primo luogo, sono necessarie azioni che rendano i braccianti meno vulnerabili e dipendenti dai caporali
Politiche di questo tipo, talvolta attivate da istituzioni locali, difficilmente possono avere successo senza il coinvolgimento degli stessi braccianti. Essi, pur in una situazione di vulnerabilità, già si oppongono al caporalato e allo sfruttamento. Il 4 settembre scorso una manifestazione di lavoratori e associazioni solidali a Foggia ha costretto enti locali e organizzazioni datoriali ad ascoltare le richieste dei braccianti. Si moltiplicano poi le esperienze di agricoltura «etica» che vedono protagonisti lavoratori migranti. Piuttosto che considerare i braccianti come vittime da salvare, quindi, sarebbe utile dare loro strumenti – una casa in paese, un autobus – che li rendano meno deboli nei confronti di caporali e datori di lavoro.
In secondo luogo, è necessario fornire alle aziende agricole delle alternative ai caporali, che hanno il monopolio del collocamento in molte aree del Sud. Gli agricoltori ritengono che i Centri per l’impiego non offrano servizi efficienti e, in effetti, le “liste di prenotazione” di braccianti istituite in alcune province hanno finora avuto esiti deludenti. Le agenzie di lavoro interinale, che potrebbero fare il lavoro dei caporali in maniera legale, non sono diffuse e, laddove ci sono, la situazione non sembra cambiare molto: Paola Clemente, bracciante morta sul lavoro ad Andria il 13 luglio scorso, era assunta proprio da un’agenzia interinale.
Una volta arrestati tutti i caporali, chi fornirà i servizi necessari alle imprese e ai braccianti?
Un’ultima nota riguarda la struttura delle filiere agroalimentari. Il costo dei caporali è oggi pagato esclusivamente dai braccianti; gli agricoltori, soprattutto i piccoli, affermano che non sarebbero in grado di pagare questi servizi e tantomeno di aumentare i salari, perché messi in difficoltà dai bassi prezzi dei prodotti agricoli praticati da commercianti, industrie e strutture della grande distribuzione. In questo quadro, la compressione del costo del lavoro garantita dai caporali sembra indispensabile per la sopravvivenza di molte (piccole) aziende. Sono quindi necessarie politiche agricole che supportino la piccola agricoltura e le filiere corte. La «certificazione etica» varata a questo proposito dal ministero dell’Agricoltura non affronta i nodi relativi ai rapporti di potere nelle filiere e potrebbe mettere ancora più in difficoltà proprio le piccole aziende, meno capaci di rispettare gli standard richiesti e quindi più a rischio di cadere nell’illegalità.
Una volta arrestati tutti i caporali, chi fornirà i servizi necessari alle imprese e ai braccianti?
Paradossalmente, un approccio puramente repressivo al caporalato rischia di contribuire alla chiusura delle piccole aziende agricole, una tendenza peraltro in atto in Italia ormai da trent’anni. Con buona pace dell’agroalimentare «made in Italy».
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