La recente, provocatoria, uscita di Mario Monti sulla necessità di «dosare le informazioni» ha provocato un acceso dibattito se sia necessario mettere sulla bilancia la libertà di espressione da un lato e le conseguenze della «cattiva informazione» sulla salute pubblica dall’altro. Questo dibattito è presente da tempo anche nella comunità scientifica. Tipicamente la discussione su «censura», cancel culture e «pensiero dominante» riguardava inizialmente pubblicazioni che erano percepite come possibile supporto a teorie razziste o sessiste (ad esempio studi su genetica umana e quoziente di intelligenza) e che venivano ritirate dalle riviste in seguito alle reazioni che provocavano. Recentemente, qualcuno ha parlato di cancel culture e di attentato al dibattito accademico quando pubblicazioni discutibili sul Covid-19 e sulle sue terapie (come l’idrossiclorochina) venivano ritirate dalle riviste che le avevano pubblicate (sono ormai circa 200 i lavori scientifici sul Covid-19 ritirati dalla pubblicazione).
Qualcuno ha parlato di cancel culture e di attentato al dibattito accademico quando pubblicazioni discutibili su Covid-19 e sue terapie (come l’idrossiclorochina) venivano ritirate dalle riviste che le avevano pubblicate
Le obiezioni principali da parte di chi protesta all’attentato alla libertà accademica sono: 1) solo pubblicando lavori eterodossi si può avere crescita della conoscenza, altrimenti si censurerebbero i futuri Galileo Galilei; 2) la scienza si autocorregge. Quando una pubblicazione presenta ipotesi deboli o dati inaffidabili, altri ricercatori cercheranno di confermare teorie e dati, ed eventualmente li falsificheranno; 3) non si può imputare alla ricerca le conseguenze derivanti dal suo uso.
La scienza, effettivamente, si autocorregge e cercherò di descrivere, con esempi, tre meccanismi di autocorrezione: revisione, ignoranza e cancellazione.
Revisione (editing). Negli anni Settanta è stata ipotizzata l’esistenza di «linfociti T soppressori». I quasi 3.000 lavori pubblicati sull’argomento hanno un picco negli anni Ottanta per poi quasi sparire nel 2000 in quanto l’ipotesi è stata modificata e si è evoluta con l’identificazione dei linfociti T regolatori (Treg).
Cancellazione. Nel 1998 Wakefield pubblicò il famoso lavoro su «Lancet» in cui, basandosi su un campione di 12 bambini, ipotizzava che il vaccino morbillo-parotite-rosolia causava autismo. A quel lavoro fecero seguito molti studi su campioni più grandi (ultimo uno studio danese del 2019 su oltre 600 mila bambini) che falsificavano quell’ipotesi. Successivamente «Lancet» sancì la «cancellazione» con il ritiro dell’articolo.
Ignoranza. La comparsa dell’Aids nel 1981 fu seguita, pochi anni più tardi, dall’identificazione del virus Hiv come la causa della malattia, indirizzando così tutta la ricerca in quella direzione. Controcorrente, un professore di Berkley, Peter Duesberg, pubblicò vari lavori tra il 1996 e il 2011 in cui sosteneva che l’Aids non era causato dall’infezione con Hiv ma da altri fattori. L’ipotesi, subito considerata a dir poco balzana, non venne mai presa seriamente in considerazione dai ricercatori nel campo.
In tutti e tre i casi, i meccanismi di autocorrezione della scienza hanno funzionato. Ma cosa è rimasto di queste tre teorie e della loro pubblicazione? I linfociti T soppressori vengono menzionati dal punto di vista storico quando si spiegano i Treg, perché la cosa è rimasta all’interno della comunità degli immunologi. Ma ora i lavori scientifici non vengono letti solo dai ricercatori, ma spesso anche dal pubblico e dai giornalisti. Il lavoro di Wakefield venne ampiamente ripreso dalla stampa del tempo e probabilmente ha contribuito in modo importante all’attuale problema dell’esitanza vaccinale. Nonostante la sua «cancellazione» e falsificazione, stiamo ancora subendone le conseguenze.
I lavori con le ipotesi di Duesberg non hanno avuto molti estimatori. Ma tra quelli che ne sono stati convinti c’è stato l’allora presidente del Sudafrica, Mbeki, che «faceva le sue ricerche» su Internet per capire come affrontare l’epidemia di Aids. Convinto da quella teoria, Mbeki decise di non introdurre gli antiretrovirali nel suo Paese, e successivi studi hanno quantificato le conseguenze in 330 mila morti. Sarebbe stato meglio non pubblicare i lavori con le teorie di Duesberg?
C’è un trade-off tra la necessità di avere la massima diversità possibile nella letteratura scientifica, essenziale per la crescita della conoscenza, e le conseguenze di questa “libertà di stampa”
C’è un trade-off tra la necessità di avere la massima diversità possibile nella letteratura scientifica, essenziale per la crescita della conoscenza, e le conseguenze di questa «libertà di stampa». Questo è aggravato dal fatto che ai giorni nostri la filiera dell’informazione è cambiata, e i quotidiani riportano i risultati di una pubblicazione scientifica basandosi su preprints e su comunicati stampa fatti prima ancora che il lavoro sia pubblicato. Perciò anche un assolutamente ipotetico giornalista coscienzioso non avrà letto il lavoro scientifico quando ne scrive per il pubblico.
Come ci si pone di fronte a questo trade-off dipende dalle nostre convinzioni filosofiche. Possiamo assumere una prospettiva «Voltaire» per cui la libertà di espressione deve essere intoccabile. Oppure possiamo assumerne una utilitaristica per cui dobbiamo, di volta in volta, considerare le possibili conseguenze di uno scritto, e del suo uso.
Con la prospettiva «Voltaire» possiamo agire solo a valle. Educare il lettore (giornalisti, politici, e – ormai – il pubblico in generale) a valutare la qualità delle evidenze ecc. A mio avviso è un approccio a dir poco irrealistico in quanto parliamo di miliardi di consumatori dell’informazione ormai liberamente disponibile come sommario su PubMed.
L’approccio utilitaristico ha ovvi rischi (il trade-off di cui sopra) ma potrebbe concretizzarsi in due modi. Il primo (che farebbe gridare molti alla censura preventiva) sarebbe che gli Editors delle riviste valutassero i lavori non solo in base alla intrinseca qualità della ricerca (metodologia, letteratura citata, statistica ecc.) ma anche in base al possibile uso che può venirne fatto. Il secondo approccio potrebbe essere di assicurarsi che le conclusioni di lavori che, ad esempio, suggeriscono una terapia per il Covid-19, contengano delle frasi standard (disclaimers) del tipo: «Mentre i nostri dati suggeriscono che x possa essere utile nella terapia del Covid-19, l’utilizzo nel paziente è prematuro fino a quando saranno disponibili studi di efficacia e sicurezza in studi clinici randomizzati e l’approvazione delle agenzie regolatorie». Vista l’avidità con cui ormai il pubblico naviga su PubMed, sarebbe anche da chiedere che ogni lavoro venga accompagnato da un lay abstract per non-specialisti che ribadisca i limiti all’utilizzo (o l’estrapolabilità) dello studio. Dato che stiamo parlando di centinaia di migliaia di lavori, questo dovrebbe essere regolamentato dalle riviste nelle loro politiche editoriali e non lasciato alla responsabilità degli autori (che sarebbe irrealistico).
Immagino che l’idea che i nostri manoscritti vengano valutati anche per l’uso che può venirne fatto scandalizzi molti di noi (e io, infatti, propenderei per la seconda via, la chiarezza lessicale dei limiti alla traduzione pratica della pubblicazione). Tuttavia, pochi sanno che questa è già una regola nelle riviste biomediche. La maggior parte delle riviste scientifiche (sicuramente tutte quelle di microbiologia) hanno, nelle politiche editoriali per gli autori, un punto che si chiama Durc (Dual Use Research of Concern), una regola dell’Nih accettata de molte riviste. Cito dalle istruzioni agli autori di «Science» : «Il National Science Advisory Board for Biosecurity ha definito Durc come "la ricerca nel campo delle scienze della vita che, sulla base delle conoscenze attuali, si può ragionevolmente prevedere possa fornire conoscenze, informazioni, prodotti o tecnologie che potrebbero essere direttamente applicate in modo improprio per costituire una minaccia significativa con ampie conseguenze potenziali per la salute e la sicurezza pubblica, le colture agricole e altre piante, gli animali, l'ambiente, i materiali o la sicurezza nazionale". I documenti identificati come possibili rischi Durc, o rischi analoghi nelle scienze fisiche, saranno portati all'attenzione dell'Editor-in-Chief per un'ulteriore valutazione. Se necessario, saranno consultati revisori esterni con esperienza nel settore». In pratica, il mio lavoro, anche se ben fatto, può essere rifiutato già ora nel caso venga giudicato «pericoloso».
Il Durc è stato implementato, non senza dibattito, con un occhio al bioterrorismo, quando, poco dopo l’attentato alle Torri gemelle dell'11 settembre, negli Stati Uniti la spedizione di lettere contenenti spore dell’antrace causò la morte di cinque persone e ci si rese conto che un bioterrorista avrebbe potuto modificare un batterio esistente, utilizzando le conoscenze pubblicate, per renderlo più immunoevasivo e mortale.
I tempi in cui i lavori scientifici venivano discussi solo all’interno della comunità scientifica rappresentano un Arcadia felice, quando la scienza accademica era, per usare un’espressione degli anni Settanta, una torre d’avorio. Con la rapida crescita del numero delle pubblicazioni scientifiche e dell’attenzione del pubblico, aggravati dalla incapacità dei giornalisti di comprendere i lavori scientifici, dalla necessità dei giornali di fare audience, o dalla malafede di chi li utilizza per scopi diversi da quelli per cui sono stati scritti, questi problemi si porranno sempre più frequentemente. Sarebbe importante iniziare una discussione che, forzatamente, non può coinvolgere solo i ricercatori. In mancanza di regolamentazione da parte della comunità scientifica e delle sue riviste, ci ritroveremmo (come ora) ad avere solo le grandi aziende private come Google, Facebook e Twitter, ad esercitare il ruolo di gatekeeper.
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