Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
Anche in questa campagna elettorale diversi partiti, in particolare di centrodestra, hanno posto le pensioni al centro della loro agenda. Berlusconi ha proposto di innalzare a 1.000 euro al mese l’importo minimo di qualsiasi pensione attualmente in pagamento, Salvini ha ricominciato a parlare di “abolizione della Fornero”. Al di là dell’auspicabilità di tali interventi, su cui non mi concentro in questo articolo, ciò che salta immediatamente all’attenzione è che si tratta di proposte di cui beneficerebbero solo le fasce più anziane della popolazione. Eppure, parlare di pensioni non implica affatto guardare unicamente alle condizioni degli attuali anziani.
In molti scritti ho sottolineato che in Italia – dove chi è entrato in attività dal 1996 in poi riceverà una pensione interamente contributiva (quindi, sulla base dei contributi versati), senza poter beneficiare dell’integrazione al minimo – potrebbe emergere un problema di adeguatezza delle pensioni future per quella quota di “giovani” che hanno trascorso finora un’ampia fase della carriera con retribuzioni (e, dunque, contribuzioni) molto limitate a causa dell’interazione di bassi salari, frequenti buchi lavorativi e periodi di occupazione con contratti a minore copertura contributiva (come, in passato, le collaborazioni a progetto). Al contrario, a segnale del fatto che le criticità discendono da un mercato del lavoro non inclusivo piuttosto che da un sistema pensionistico in sé penalizzante, individui con carriere “piene” e lunghe riceveranno nel contributivo – anche se a età di ritiro ben superiori del passato – pensioni di importo relativamente elevato.
Ma quanti potrebbero essere i lavoratori a rischio di “pensioni da fame”? In una recente analisi (inclusa nel Rapporto sullo Stato Sociale 2022, Sapienza University Press) ho provato a dare una risposta a questa domanda facendo uso di un dataset amministrativo che consente di osservare le storie lavorative di un ampio campione di iscritti all’Inps (restano esclusi solo dipendenti pubblici e libero professionisti, con lieve sovrastima dei rischi di fragilità delle carriere).
Per valutare il rischio di una limitata accumulazione contributiva, ho seguito un approccio relativo valutando il montante in rapporto a quanto avrebbe accumulato un individuo occupato sempre come dipendente e con retribuzione annua lorda pari al 60% di quella mediana (ossia poco meno di 12.000 euro lordi annui reali). Tale individuo rappresentativo otterrebbe a 69 anni, dopo 45 di lavoro, una pensione di circa 900 euro lordi al mese, valore in linea con la soglia di povertà relativa per un single calcolata da Eurostat. La distribuzione della quota di individui con un montante inferiore a quello dell’individuo rappresentativo esprime, quindi, l’incidenza del rischio di “povertà di accumulazione contributiva”, cioè la quota di persone che, se la carriera futura non dovesse migliorare sensibilmente, rischierebbero al pensionamento di ricevere una prestazione di importo molto limitato.
I risultati ottenuti sono molto preoccupanti. Fra gli entrati in attività fra il 1996 e il 1998, che i dati a disposizione consentono di osservare per i primi vent'anni di carriera, ben il 51,1% – il 60,9% fra le donne e il 44,1% fra gli uomini – ha accumulato meno dell’individuo rappresentativo e quindi è a rischio di ricevere al pensionamento, in mancanza di sensibili miglioramenti nella carriera residua, una prestazione di importo inferiore alla soglia di povertà considerata. Inoltre, il quadro si fa ancora più fosco fra le coorti più giovani. Restringendo il periodo di osservazione da 20 a 10 anni, prendendo a riferimento solo chi lavora per almeno 5 anni su 10 e confrontando le carriere di coloro che sono entrati in attività fra il 1996 e il 2008, la quota di individui a rischio di “povertà di accumulazione contributiva” cresce dal 40,1% della coorte 1997 al 54,2% della coorte 2008 (e valori presumibilmente più alti riguardano le coorti successive, non osservabili per un intero decennio con i dati a disposizione).
Non vi è da nutrire molta fiducia nella possibilità che si verifichi un miglioramento significativo nella parte residua delle carriere, in grado di dare soluzione al problema delle future prospettive pensionistiche
Le carriere fragili sono, dunque, assai diffuse, e non vi è da nutrire molta fiducia nella possibilità che si verifichi un miglioramento significativo nella parte residua delle carriere, in grado di dare soluzione al problema delle future prospettive pensionistiche.
È, dunque, urgente ragionare su come modificare la formula contributiva in modo da garantire chi dovesse avere carriere sfavorevoli quantomeno contro i rischi più gravi di futura povertà. Il contributivo, con la sua logica attuariale, rappresenta una buona cornice per definire i criteri di fondo del sistema previdenziale, ma la sua applicazione non implica che non ci si possa allontanare dalle sue regole rigide per far fronte a situazioni che comportano rischi di prestazioni particolarmente insufficienti.
Dovendo tutelare chi avrà storie lavorative lunghe ma sfavorevoli, la soluzione deve essere di carattere previdenziale, basata cioè su una ridefinizione della formula di calcolo della pensione, anziché di tipo assistenziale, come sarebbe una misura means tested di sostegno contro la povertà (come la pensione di cittadinanza e l’assegno sociale). Come ho proposto ormai da molti anni, andrebbe quindi introdotta una “pensione di garanzia”, i cui aspetti essenziali possono essere così sintetizzati.
In coerenza con la logica del contributivo che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più, si dovrebbe introdurre un importo garantito, di ammontare variabile a seconda degli anni di contribuzione e dell’età di ritiro (ad esempio, 14.000 euro annui lordi reali in caso di ritiro a 66 anni e 42 di anzianità, da aumentare o ridurre proporzionalmente in caso di valori maggiori o minori degli anni di contribuzione e dell’età di ritiro). Ogni qualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva a cui si ha diritto in base ai contributi fosse inferiore alla prestazione garantita, essa verrebbe integrata nella misura della differenza fra queste due grandezze. Nell’anzianità contributiva potrebbero poi essere valorizzati periodi privi di contribuzione da lavoro o figurativa, che si intendesse tutelare a fini previdenziali in base a criteri condivisi di equità – ad esempio, periodi di disoccupazione non indennizzata, cura o formazione.
In coerenza con la logica del contributivo che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più, si dovrebbe introdurre un importo garantito, di ammontare variabile a seconda degli anni di contribuzione e dell’età di ritiro
Il finanziamento dell’integrazione potrebbe essere posto a carico della fiscalità generale o, in alternativa, all’interno del sistema pensionistico, stabilendo una differenza fra aliquota di finanziamento e di computo della pensione, così creando una forma di redistribuzione solidaristico-assicurativa nel contributivo. Nel primo caso, si genererebbe un aggravio per il bilancio pubblico, ma, trattandosi di un’integrazione da applicarsi al solo schema contributivo, l’onere emergerebbe all’incirca dal 2040 in poi, quando la “gobba” della spesa pensionistica italiana dovrebbe attenuarsi sensibilmente.
Una misura così disegnata avrebbe il pregio di assicurare la target efficiency, cioè tutelare al minimo costo tutti e solo gli ex lavoratori con carriere sfavorevoli, minimizzando i disincentivi alla prosecuzione dell’attività. Con l’allungamento della carriera individuale crescerebbero, infatti, sia la pensione contributiva che la prestazione garantita.
Senza aspettare il Godot di un mercato del lavoro finalmente inclusivo in termini occupazionali e retributivi, e quantomeno per correggere le gravi iniquità che si manifestano ormai già da molti anni, le differenze più macroscopiche negli esiti lavorativi degli individui andrebbero dunque attenuate da un sistema pensionistico che compensasse, almeno parzialmente, quelle differenze degli esiti lavorativi che ripropongono disuguaglianze inaccettabili nelle pensioni.
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