Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
Le democrazie liberali che compongono l’angolo di mondo economicamente avanzato faticano ad affrontare le grandi sfide che negli ultimi quarant’anni si sono manifestate o aggravate. Le sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica – che vanno considerate insieme – hanno creato forti diseguaglianze nella distribuzione del reddito e nelle condizioni di vita dei cittadini in quasi tutti i Paesi, e in particolare disoccupazione e precarietà del lavoro per i ceti più poveri. La sfida ambientale – se affrontata sul serio (stiamo infatti avvicinandoci a un punto di non ritorno) – rischia di accentuare le diseguaglianze distributive oggi prevalenti. Più di recente si è manifestata la sfida sanitaria con la pandemia da Covid-19: essa è però endemica in un mondo globalizzato. Da ultimo la sfida geopolitica, il forte peggioramento nelle relazioni internazionali conseguente all’invasione russa dell’Ucraina. È dunque a rischio il miracoloso e precario equilibrio che era stato preservato nel dopoguerra nei Paesi capitalistici retti da regimi liberaldemocratici, sia nella fase del "compromesso socialdemocratico" (1945-1975) sia in quella del "neoliberismo" (1980-2008).
Sommate insieme, queste sfide di diversa natura e origine rappresentano una grave minaccia per le democrazie liberali poiché aggravano i compiti di governo che esse devono affrontare e al tempo stesso riducono le risorse economiche e sociali con cui lo Stato può contrastarle. Sono minacce che le democrazie liberali non possono affrontare come le affrontano dittature e autocrazie, se i principi liberali (diritti individuali e rule of law) e democratici (effettiva autonomia dei partiti e democrazia rappresentativa) devono essere rispettati. Se lo sono, il sistema politico delle liberaldemocrazie dev’essere organizzato in modo che risposte efficaci alle minacce prima accennate siano continuamente fornite dai loro governi, anche in un contesto istituzionale (stavo per scrivere: "nonostante" un contesto istituzionale) di estesi diritti individuali, Stato di diritto, democrazia maggioritaria, partiti liberi di influenzare e rappresentare le opinioni dei cittadini, media non soggetti al controllo dei governi.
In alcuni Paesi, dove le istituzioni liberaldemocratiche sono profondamente radicate e la situazione economica meno grave, i governi possono fornire le necessarie "risposte efficaci" con minori difficoltà. In altri, un diverso disegno del sistema politico rispetto a quello attualmente in vigore può essere necessario, se si vuole evitare una grave crisi della democrazia liberale e rappresentativa. L’Italia appartiene purtroppo a questi ultimi. Per rendersene conto, basta richiamare alla memoria gli snodi essenziali di una storia che dovrebbe essere ben nota: la storia politica ed economica del nostro Paese a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Scusandomi per la natura sommaria, quasi caricaturale, dei richiami che seguono, li divido in richiami politici e richiami economici anche se essi sono strettamente collegati. Veniamo allora alla grande svolta del secondo conflitto mondiale e alla situazione politica in cui si venne a trovare l’Italia alla sua conclusione.
Il grande “compromesso socialdemocratico” 1945-75 venne promosso dalle potenze vincitrici anglosassoni nella consapevolezza degli esiti cui aveva dato luogo il congresso di Versailles dopo la Prima guerra mondiale e della presenza dell’Unione Sovietica dopo la Seconda: se non si creavano condizioni di vita accettabili dalla grande massa dei cittadini, se si tornava al laissez faire della “belle époque”, si sarebbero ricreate tensioni sociali polanyiane (contromovimenti) e l’Urss, anche se al momento costretta dagli accordi di Yalta, avrebbe acquistato una influenza crescente. Come le cose andarono nel nostro Paese è noto: il “bipartitismo imperfetto” funzionò relativamente bene fino al momento in cui la Dc dovette allearsi con i socialisti. In seguito, le “imperfezioni” del bipartitismo – dovute da ultimo al fatto che la Democrazia cristiana non era un partito liberale e il Pci non era un partito socialdemocratico, con una convincente Bad Godesberg alle sue spalle – presero il sopravvento: la coalizione democristiano-socialista non riuscì ad attuare le riforme che la nuova e meno favorevole fase economica internazionale richiedeva, a partire almeno dalla fine degli anni Settanta. Il governo di centrosinistra degenerò nel Caf, da cui poi Mani Pulite, Berlusconi e il populismo estremo di questi ultimi anni: si tratta del periodo che va dalla seconda metà degli anni Ottanta a oggi, intervallato da “governi tecnici” quando la situazione si faceva economicamente insostenibile.
L’Italia è tra i grandi Paesi europei quello in cui forze populiste e antisistema hanno il maggior peso elettorale e possono vantare una presenza significativa al governo
Dalla politica all’economia: le grandi innovazioni tecnologiche e le trasformazioni strutturali che l’Italia doveva assorbire per crescere nell’immediato dopoguerra (il fordismo, in sostanza) erano alla sua portata e innescarono rapidamente un forte sviluppo economico. Esse crearono disoccupazione e sottoccupazione nelle campagne (oltre metà della popolazione era attiva in agricoltura o nel terziario arretrato), e la disoccupazione andava sussidiata se si voleva consenso elettorale. Ma la forte crescita lo consentiva, e i figli dei contadini avevano una istruzione sufficiente a diventare operai semi-qualificati, o emigrarono: le risorse economiche, culturali e istituzionali per crescere esistevano, e quelle politiche vennero fornite dalla fase di compromesso socialdemocratico, sostenuta dalla spinta degli Stati Uniti.
La differenza con la situazione di oggi non potrebbe essere maggiore: la grande trasformazione strutturale odierna (globalizzazione e rivoluzione tecnologica Ict) non è il fordismo e l’economia italiana non cresce come allora; anzi, è da molto tempo in condizioni di ristagno. In un contesto di forte disomogeneità territoriale, le riforme che i governi del passato non attuarono o attuarono male (nella scuola, nel sistema giudiziario, nelle pubbliche amministrazioni, nell’architettura istituzionale, nell’economia…) rendono molto difficile affrontare ora i problemi di disoccupazione e occupazione precaria nello stesso modo in cui il nostro Paese accompagnò allora l’uscita dalla vita attiva di milioni di lavoratori agricoli.
Da un lato, i lavoratori con qualifiche inadeguate o in settori destinati a contrarsi o a sparire non sono riutilizzabili negli impieghi richiesti dalla nuova “Grande Trasformazione” e spesso non lo sono neppure – per mancanza di una istruzione adeguata – i loro figli, a differenza dei figli di contadini che divennero operai semi-qualificati o furono costretti a emigrare. (Una possibilità, quest’ultima, che oggi riguarda una limitata quota di forza lavoro qualificata, rischiando però di impoverire le già scarse risorse culturali del Paese). Dall’altro lato, il ristagno del reddito – frenato da inefficienze e strozzature di offerta dovute alle mancate riforme del passato – non consente di creare le risorse per un programma di riqualificazione e, dove questo è impossibile, di elargire un sufficiente reddito di cittadinanza. Queste difficoltà si sono trascinate (e aggravate) fino ad oggi e sono quelle che cerca di affrontare il Pnrr: esse sono alla base delle tensioni che l’attuale configurazione della rappresentanza politica non è in grado di superare, aprendo la strada a movimenti populisti.
Questa è la situazione che una riforma del nostro sistema politico si troverà ad affrontare. Per affrontarla con qualche speranza di successo è necessario favorire un assetto di rappresentanza composto prevalentemente da partiti che rinuncino alla facile demagogia del populismo e convergano sui punti base di un programma di ricostruzione economica, sociale e culturale del nostro Paese: un programma purtroppo lento e faticoso, della cui necessità è difficile convincere gli elettori. Questo minimo obiettivo comune dovrebbe essere condiviso dalla gran parte delle forze politiche del nostro Paese, che invece non condividerebbero programmi più orientati in senso partigiano, a destra o a sinistra. Le mie convinzioni politiche sono di sinistra liberale. Ma sono convinto che questa non è, né mai potrà essere, un obiettivo comune. E di conseguenza credo che tutte le posizioni politiche che si richiamano ad un messaggio liberale debbano essere coinvolte nel tentativo di ricostruzione del nostro sistema politico.
Mantenersi su un piano “non-partisan”, proporre riforme del sistema politico che possano essere condivise sia dalla sinistra che dalla destra liberali (…c’è un limite alla non-partisanship!), comporta però che la necessaria riorganizzazione della politica italiana debba essere indirizzata (e debba essere limitata) a far prevalere nei principali partiti un nucleo condiviso ma ristretto di obiettivi politici iscritti in una concezione liberal-democratica, senza privilegiare le possibili versioni di destra o sinistra che questa concezione ammette: dunque, un obiettivo liberale (Stato di diritto), un obiettivo democratico (democrazia rappresentativa, centrata sui partiti politici), una Unione europea con un obiettivo di lungo periodo di sempre più stretta integrazione politica (ma già questo non è facile da presentare come obiettivo bipartisan). Il tutto – si spera – in un mondo globalizzato e diviso in grandi potenze e Stati che interagiscano pacificamente, anche se non tutti adottano il regime liberal-democratico che prevale nell’Unione europea.
Sono consapevole che le maggiori difficoltà nel far propria questa tavola di obiettivi condivisi le devono soprattutto affrontare, nel nostro Paese e nei prossimi anni, partiti e movimenti appartenenti alla destra dello spettro politico (ma anche il M5S, che non saprei classificare tra destra e sinistra). Proprio come ieri, ai tempi del Pci, dovette affrontarle soprattutto la sinistra. Ma da “patriota” (direbbe Giorgia Meloni) sono anche convinto che, in assenza di questo minimo denominatore comune – in realtà il massimo possibile e auspicabile – la costruzione di un assetto politico che consenta di affrontare le difficoltà interne e internazionali che l’Italia ha di fronte sia poco realistica, per non dire impossibile. Sarebbe dunque un fraintendimento della tesi qui sostenuta se i principali partiti del centrodestra sospettassero che questo appello sia un cavallo di Troia del centrosinistra per ingannare e sconfiggere l’eterno avversario. Le destre possono convivere e anche prevalere in un contesto liberal-democratico, come dimostra la lunga fase di neoliberismo tra il 1980 e il 2008, e rinvio a Salvati-Dilmore, Liberalismo inclusivo, per una dimostrazione di questo punto fondamentale. Non si tratta di far vincere l’uno o l’altro dei due grandi orientamenti politici delle democrazie moderne, ma di far vincere l’Italia. E conforta che voci liberali sembrino un poco più influenti, anche nel campo della destra.
La si giri come si vuole: la continuità del governo Draghi comportava una autolimitazione della democrazia e una sconfitta della politica
Già negli ultimi mesi di vita del suo governo, dopo la rielezione di Mattarella alla presidenza della Repubblica, era facile rendersi conto che Draghi stava perdendo incisività e nerbo nei confronti della coalizione di salute pubblica che presiedeva, la quale ormai agiva sotto l’influsso di un altro demone, l’imminenza delle elezioni politiche. Dopo la Grande Recessione del 2008 la politica italiana aveva vissuto uno stato di turbolenza che aveva visto il governo affidato per ben due volte a personalità che non provenivano dai partiti e non erano legittimate da una scelta democratica (Monti e Draghi). E quando, dopo le elezioni del 2018, all’apice della crisi indotta dall’irruzione dei 5 Stelle nella politica italiana, il governo sembrava affidato a forze legittimate dal voto, esso era entrato rapidamente in crisi dando luogo ad una serie di scissioni e ricomposizioni di cui i cittadini capivano ben poco. Il tutto nel quadro di una piena legittimità costituzionale.
Ma la domanda di un governo affidato a una coalizione politica composta da partiti effettivamente votati dagli elettori è più che comprensibile: Lega e Forza Italia hanno solo colto l’occasione insperata di accodarsi ai 5 Stelle nel far cadere il governo Draghi e affidarsi alla forza trainante di Fratelli d’Italia – da sempre all’opposizione – per costruire una coalizione vincente. Da un punto di vista elettorale, una mossa brillante. Se resisterà alla prova di un governo che si preannuncia come straordinariamente difficile, è tutt’altra cosa.
La si giri come si vuole: la continuità del governo Draghi comportava una autolimitazione della democrazia e una sconfitta della politica: politica intesa come conflitto tra indirizzi di governo e prevalenza di uno di essi mediante un voto democratico. Da ciò segue che già nella prossima e imminente legislatura occorrerebbe predisporre gli strumenti e le misure che consentano di “tornare alla politica” in un contesto risanato dalle distorsioni populistico-demagogiche degli ultimi trent’anni e dalle cause che ad esse hanno dato origine. In altre parole: ci sembra impossibile eludere una vasta e approfondita discussione cui partecipino tutte le correnti politico-culturali liberaldemocratiche presenti nel nostro Paese. Non è compito di queste note delineare l’assetto auspicabile del sistema politico italiano che dalla discussione e dal confronto tra forze liberali di diverso orientamento politico dovrà emergere, se non per sottolineare che sarà differente da quello in cui oggi si trova: esso richiede una diversa definizione di destra e sinistra, di diritti e doveri, di amici e nemici. E richiederà un diverso disegno delle istituzioni della Repubblica e quindi riforme costituzionali, anche se porrei l’accento più sul mutamento di mentalità degli attori politici che su strumenti di ingegneria costituzionale.
Riforme di grande portata esigono l’adesione convinta delle principali forze politiche del nostro Paese – almeno di tutte quelle liberaldemocratiche
Oggi la confusione è grande: non è un caso che i più importanti tentativi di riforme costituzionali dell’ultimo quarto di secolo (Bicamerale D’Alema [1998], Riforma Calderoli [2006], Riforma Renzi [2016] siano falliti e le riforme costituzionali approvate (Titolo V [2001], Riduzione parlamentari [2019]) non “abbiano migliorato” (un eufemismo che rasenta la falsità) lo stato di cose in cui ci troviamo.
Come torno a sottolineare, riforme di grande portata esigono l’adesione convinta delle principali forze politiche del nostro Paese – almeno di tutte quelle che si rifanno a una concezione politica liberaldemocratica. Domanda: si può realisticamente pensare ad una legislatura che, oltre ai compiti di un governo dell’emergenza, lasci spazio allo sforzo onesto e condiviso di decantazione e di riflessione che richiede una riforma di ampia portata? Ci sono indizi che inducano a ritenere questo esito (auspicabile) come realistico e possibile?
Gli indizi purtroppo scarseggiano, ed è ingenuo cercarli in una campagna elettorale al calor bianco. Ma è proprio questo “calor bianco”, e la continua delegittimazione degli avversari, che sarebbe stato opportuno raffreddare. Veltroni è stato criticato, talora preso in giro, per il suo tentativo nella campagna per le elezioni del 2008 di evitare una aperta delegittimazione di Berlusconi (“il leader della coalizione avversa”), di trattarlo “come se” fosse un normale avversario politico e non un nemico della democrazia, una disgrazia nazionale da evitare a tutti i costi. Abbiamo già detto che lo sforzo maggiore di autocritica, di ripulitura dagli eccessi di demagogia e di incompetenza che inquinano i programmi elettorali spetta oggi alle destre e ai 5 Stelle, anche se sarebbe auspicabile per tutti i partiti, anche quelli che si ammantano del vessillo europeo e auspicano il ritorno di Draghi.
Ma che bisogno c’è di negare che possa affermarsi un’aspirazione liberaldemocratica in partiti che provengono da storie nelle quali è difficile trovarne tracce? Di rinfacciare in continuazione alla Meloni i suoi rapporti con il Msi? Tutti i grandi partiti italiani sono stati costruiti con un legno storto. Ed è inutile, ma soprattutto dannoso per il Paese, ricacciarli in continuazione nel loro passato: era questo che Veltroni aveva capito. Che se non c’è una più forte e più condivisa evoluzione dei grandi partiti, di destra e di sinistra, verso una concezione liberaldemocratica della politica, che premi merito e competenza, non ci sono speranze di uscire dal declino.
Una prospettiva riformistica e liberaldemocratica sembra oggi molto lontana, e vicina invece quella di un conflitto che alimenterà un continuo declino economico-sociale
Credo che sarà assai difficile trasformare la prossima legislatura in una legislatura costituente come molti, io stesso fra questi, sognano: se i sondaggi, le previsioni, le analisi più attendibili sono corrette, troppo netta è la differenza di forza parlamentare e di consenso sociale tra destra e sinistra, troppo vicine promesse elettorali insensate, troppo incerto e oscuro il futuro prossimo. Il Paese dovrà probabilmente sperimentare le dure prove che l’attendono, e gli schieramenti politici che alimentano oggi un insano ottimismo dovranno adeguarsi al clima assai diverso che diventerà ben presto dominante. Forse saranno necessarie nuove elezioni – si spera sulla base di una legge elettorale condivisa e costituzionalizzata – affinché le forze politiche si rendano conto che la reciproca demonizzazione porta al disastro. E sarebbe già un buon risultato, per questa legislatura, se cominciasse a prender corpo una consapevolezza “veltroniana” della necessità di maggior moderazione e rispetto reciproco, che prepari il clima di una vera legislatura costituente.
Mentre scrivo, alla vigilia del voto, in un contesto di coalizioni impegnate a delegittimarsi reciprocamente e a sventolare vessilli identitari, compromessi dignitosi e ampie riforme condivise sono molto difficili, per non dire impossibili: torneremmo alle bocciature di cui sono state vittime le grandi riforme costituzionali nel recente passato. O forse a una riforma imposta a forza dalla coalizione vincente, se avrà il consenso parlamentare per farlo. Oggi una prospettiva riformistica e liberaldemocratica sembra molto lontana, e vicina invece quella di un conflitto che alimenterà un continuo declino economico-sociale. Ma la storia è dotata di un sufficiente senso dell’ironia – così diceva un mio vecchio maestro – da sfidare qualsiasi ragionevole previsione.
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