Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
Questa campagna elettorale appare come una gara in cui ogni concorrente corre da solo, su un campo di propria scelta, cercando di attirare l’attenzione di un pubblico smarrito e distratto. Mancano quasi del tutto le occasioni di confronto diretto tra avversari, così come mancano sedi in cui le piattaforme elettorali siano sottoposte al vivo contraddittorio di giornalisti ed esperti. Tutto questo rende forse ancor più difficile rispetto al passato ricavare indicazioni attendibili sul futuro delle politiche pubbliche. Anche di quelle, come le politiche migratorie, dove le differenze tra gli schieramenti sono, almeno sulla carta, più nette e marcate.
Certo, si possono compulsare i programmi elettorali ufficiali (qui un’utile raccolta). Leggendoli, però, si ha l’impressione di pigre compilation di idee del passato. Il caso più evidente è la riproposizione da parte della Lega dei Decreti Sicurezza, già in vigore (con paradossali effetti di promozione dell’irregolarità) tra il 2018 e il 2020.
Ma anche in altri quadranti il senso di déjà vu è forte, per esempio con la proposta di reintroduzione del sistema dello sponsor per gli ingressi legali, da parte di +Europa e di Azione. Si risale addirittura alla fine del secolo scorso, quando venne effettivamente condotta un’embrionale sperimentazione in quel senso. Ma riproporre oggi, senza aggiornamenti e senza dettagli, quell’idea è troppo poco se si vuole davvero risolvere il nodo dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro migrante, in assoluto uno dei più spinosi della politica migratoria.
Ancora meno ci dicono i programmi quando si allineano – quasi senza eccezioni, da destra a sinistra – nel proporre alcune soluzioni che tutti sanno impraticabili. È il caso del “superamento del regolamento di Dublino”, per ottenere una redistribuzione seria dei richiedenti asilo tra tutti gli Stati membri: un obiettivo perseguito vanamente in maniera bipartisan almeno da una ventina d’anni.
Altrettanto illusoria è la misura con cui l’accordo di programma del centrodestra si ripromette di bloccare definitivamente naufragi e sbarchi, cioè la “creazione di hot-spot nei territori extra-europei, gestiti dall'Unione europea, per valutare le richieste d'asilo”. Anche in questo caso, si riesuma un’idea che circola – con ben poche ricadute pratiche – dai primissimi anni Duemila (Tony Blair fu uno dei primi a lanciarla). Peraltro anche qui, come col regolamento di Dublino, non ci viene spiegato come e perché l’Unione europea dovrebbe intervenire per risolvere un problema innanzitutto italiano, per di più a sostegno di un governo che non si annuncia come particolarmente amico di Bruxelles.
D’altra parte, se anche la Tunisia (il Paese più spesso proposto per questo scomodo ruolo) accettasse di diventare la piattaforma extraterritoriale per l’esame delle domande di asilo in Europa, perché chi fosse respinto in quella sede non dovrebbe provare comunque ad affidarsi ai trafficanti? È facile prevedere che la tratta non verrebbe affatto debellata; garantiremmo invece ai “veri rifugiati” un trattamento dignitoso e sicuro. Personalmente, sarei d’accordo, ma forse non è questo l’obiettivo primario della proposta in questo caso.
Dai programmi ufficiali dei partiti non ci vengono indicazioni chiare e affidabili in merito al futuro delle politiche migratorie. In che direzione guardare allora?
Insomma, dai programmi ufficiali non ci vengono indicazioni chiare e affidabili in merito al futuro delle politiche migratorie. Allora, in che direzione guardare per capire che cosa aspettarsi? In cerca di indizi, ho provato ad ascoltare direttamente e con attenzione la voce della persona che, ad oggi, sembra avere maggiori probabilità di guidare il Paese per i prossimi cinque anni. Ho scelto il comizio di Giorgia Meloni del 7 settembre a L’Aquila. Oltre al vantaggio di trovarsi integralmente online, si tratta di un comizio particolarmente significativo, in quanto è proprio nella città abruzzese che Meloni si candida all'uninominale. Inoltre, L’Aquila ha un sindaco di Fratelli d’Italia ed è il capoluogo dell’unica regione governata da quel partito. Insomma, un luogo simbolico, un po’ come la Bergamasca per la Lega delle origini.
Che cosa ci dice quel comizio? La prima cosa, per chi non è un habitué di questo genere di eventi, è una piacevole impressione di toni civili e moderati, con frequenti e insistite rivendicazioni di “buonsenso”. Ma questa relativa mitezza, con dosi limitate di retorica, dura solo fino al minuto 36, quando l’oratrice giunge alla tappa finale della sua cavalcata: dedicata, guarda caso, proprio all’immigrazione. Qui, i toni salgono, fino a toccare, in un crescendo di 7-8 minuti (non poco, su circa 45’ totali), vette piuttosto accese.
Il liquore sovranista va annacquato a tutti i costi e su tutti i tavoli, tranne uno, quello dell’immigrazione. Su questo, Meloni ha ancora bisogno di galvanizzare l’uditorio con le care, vecchie parole d’ordine
Una prima conclusione, dunque, è che, per l’ex estremista che ora aspira a dirigere il Paese, il liquore sovranista va annacquato a tutti i costi e su tutti i tavoli, tranne uno, appunto quello dell’immigrazione. Su questo tavolo, almeno su questo, Meloni ha ancora bisogno di galvanizzare l’uditorio con le buone vecchie parole d’ordine.
Il percorso argomentativo, però, non è scontato. Si parte con l’affermazione di un principio sacrosanto dell’ordine internazionale liberale: “Una cosa sono i profughi, altra cosa gli immigrati”. Secondo la lettura di Meloni, questa distinzione fondamentale, spesso problematica in concreto ma tuttora cruciale a fini regolativi, sarebbe stata volutamente oscurata dalla “sinistra”. Per corroborare questa tesi cospirazionista, Meloni contrappone le immagini dei “veri” profughi ucraini, perlopiù donne e bambini, a quelle di migliaia di “uomini soli in età da lavoro stipati sui barconi”, insinuando che questi ultimi siano tutti impostori “perché normalmente quando c’è una guerra gli uomini combattono e scappano donne e bambini”. Se la sinistra – così prosegue il ragionamento – non si oppone, e anzi incoraggia questo fenomeno, non è per “buonismo”, ma per minare i diritti e i salari degli italiani, compiacendo i “poteri forti”, a costo di “tenere gli uomini a spacciare droga e le donne a prostituirsi”.
La narrazione opposta, quella secondo cui gli immigrati vengono per fare "i lavori che gli italiani non vogliono fare", viene semplicemente denunciata come falsa, come un'invenzione della sinistra élitaria, globalista e anti-popolare. In realtà, incalza Meloni, gli italiani quei lavori li farebbero eccome, semplicemente si rifiutano di farli a quelle condizioni. Ovviamente, se i salari sono troppo bassi, non è colpa dei datori di lavoro che ricorrono al lavoro irregolare, della carenza di controlli e dei decreti flussi sottodimensionati. La colpa, invece, è proprio degli "extracomunitari" (termine anacronistico e improprio, che però continua a essere usato, perché utile a segnalare alterità e distanza), che quei salari troppo bassi li accettano senza scrupoli. E così il cerchio argomentativo si chiude, confortando l‘uditorio in una percezione di sé eroica e vittimistica. Il ritmo degli applausi e delle acclamazioni si fa frenetico.
D’accordo, si dirà, ma questa è solo normale retorica elettorale, non ci dice nulla sul futuro delle politiche. Certo, quello che si dice in un comizio è diverso da ciò che si farà una volta al governo. Tuttavia, le parole usate nelle piazze creano aspettative e vincoli. Se, una volta al governo non si potrà adempiere sul piano dei fatti, si sarà costretti a parlar d’altro, o a compensare sul piano dei fantasmi.
Ora, non è difficile prevedere che, per il prossimo governo come per tutti quelli che l’hanno preceduto, la difficoltà ad adempiere, in materia migratoria, sarà enorme. Per la semplice ragione che i vincoli strutturali di cui soffre l'Italia in questo campo sono pesantissimi. Sono vincoli che si manifestano innanzitutto sul versante della domanda, che è crescente e che, in questo nostro eterno inverno demografico, non può essere facilmente soddisfatta da altre fonti né mitigata, in tempi brevi, da politiche industriali e tecnologiche mirate. Ma i vincoli sono pesantissimi anche, per così dire, sul lato dell'offerta: trent'anni di esperienza dimostrano infatti che non esistono soluzioni facili e definitive per bloccare o redistribuire i flussi via mare.
Tutto questo non consentirà radicali svolte di policy. Intendiamoci, l’impatto si sentirà: un’eventuale reintroduzione dei “decreti Salvini” tornerà a provocare sofferenze inutili, senza reali benefici in termini di sicurezza. È probabile che si apra una fase nuova e più intensa di criminalizzazione delle Ong dedite al salvataggio in mare. Ma, per il resto, continueremo a barcamenarci tra ingressi regolari sottodimensionati e gestiti sottobanco (l'ultima trovata in materia è di poche settimane fa) ed esternalizzazione dei controlli (con il rinnovo del memorandum stipulato con la Libia – dal centrosinistra, peraltro – nel 2017).
Cambierà il linguaggio, quello sì. Ma solo per riportarci indietro di qualche anno (al 2002, o al 2009), verso una retorica pubblica ancora più escludente e discriminatoria, sempre imperniata sul binomio evergreen "spacciatori e prostitute", integrato alla bisogna da altre etichette, quali “islamisti” e “baby-gang”. Nel complesso, faremo qualche ulteriore passo indietro verso un'Italia più provinciale, ingiusta e fragile. Ma i problemi reali e le grandi questioni aperte, quelli rimarranno tutti lì, intonsi e pronti per essere strumentalizzati di nuovo alla prossima campagna elettorale.
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