Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
Guardando ai programmi e tralasciando invece i proclami dei partiti in campagna elettorale, non stupisce che grandi esclusi continuino a essere le cittadine e i cittadini maggiorenni più giovani, a parte i tentativi dell’ultim’ora per provare a conquistarli attraverso i social, a dire il vero anche un po’ pateticamente. Eppure, se si osserva la condizione giovanile in Italia, sia attraverso dati quantitativi sia tramite le ricerche qualitative, ci viene mostrato un quadro particolarmente critico rispetto a diverse dimensioni, a cominciare dal lavoro e dall’istruzione.
Forse i giovani in Italia sono pochi, ma rappresentano comunque quasi 4 milioni di elettori (tra i 18 e i 26 anni; tra l’altro da quest’anno anche gli under 25 votano per entrambe le Camere). E non va dimenticato che dall’elettorato, per mancanza della cittadinanza italiana, viene escluso più di un milione di giovani di origine straniera che vive, studia e lavora in Italia. Si tratta in larga parte di una fetta di indecisi, anche perché il voto di tipo ideologico non sembra essere una delle caratteristiche delle nuove generazioni. Eppure si tratta di elettrici ed elettori che sarebbero interessati a valutare proposte specifiche, regolate su di loro. Inoltre, suscitare il loro interesse ridurrebbe il rischio di astensione: stando agli ultimi sondaggi, un giovane su due rischia di non votare poiché non si sente rappresentato da alcuna forza politica.
Ma qual è la situazione dei giovani oggi in Italia? Innanzitutto sono sempre meno e proprio per questo motivo sarebbe bene non farseli scappare: negli ultimi dieci anni più di 300.000 giovani e giovani adulti (18-39 anni) hanno lasciato il nostro Paese (si veda il numero dedicato da questa rivista nel 2018).
L’Italia è al terzo posto in Europa per disoccupazione giovanile (il 28%, nel 2021, tra i 15 e i 24 anni), dopo Spagna e Grecia, rispetto a una media europea del 16% ed è, purtroppo, il primo Paese per numero di Neets, giovani che non lavorano e che non studiano (24%, nel 2021, nella fascia 15-34 anni). Si tratta di un fenomeno particolarmente grave, in quanto un periodo di inattività nella fase giovanile rischia di avere per conseguenza perdite di capitale umano difficilmente compensabili, non di rado con esiti nefasti sulle carriere lavorative, spesso non coerenti e non in crescita, con periodi di interruzioni causate da inattività o disoccupazione.
A questo riguardo, i risultati di una ricerca europea sui giovani a rischio di esclusione sociale (cfr. Progetto Except, Horizon 2020) mostrano che spesso i rischi di esclusione o marginalizzazione nel mercato del lavoro derivano anche da percorsi educativi poco lineari e coerenti, segnati da interruzioni e/o cambiamenti. In particolare, i fattori critici sarebbero la carenza/scarsa efficacia dell’orientamento alla scelta nelle fasi cruciali di passaggio tra i diversi stadi dell’istruzione e una doppia incertezza, “interna” ed “esterna” all’individuo: difficoltà a comprendere attitudini e desideri individuali da un lato, mercato del lavoro come “entità opaca” dall’altro (v. Social Exclusion of Youth in Europe, a cura di M. Unt, M. Gebel, S. Bertolini, V. Deliyanni-Kouimtzis e D. Hofaecker, Policy Press, 2021).
Gli ultimi anni hanno acuito la precarietà della situazione. Con la pandemia, i giovani sono stati i primi a perdere il lavoro perché sono in media più occupati a termine (45% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, dato 2022) e gli occupati a termine sono calati tra febbraio 2020 e febbraio 2021 del 12,8% (a tempo indeterminato sono scesi dell’1,5%). Inoltre, come mostrano i più recenti dati Istat, lavoravano in segmenti dell’economia tra i più colpiti dalle restrizioni: il commercio, il turismo, l’intrattenimento, la ristorazione.
Il titolo di studio non garantisce più l’ingresso in un lavoro stabile e di qualità, ma nel medio periodo protegge dalla disoccupazione e assicura carriere lavorative migliori e stipendi più alti
Molte indagini hanno confermato che il titolo di studio non garantisce più l’ingresso in un lavoro stabile e di qualità, ma che nel medio periodo protegge dalla disoccupazione e assicura carriere lavorative migliori, per esempio con stipendi più alti (v. E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, 2017). Ma anche sul versante dei percorsi formativi non siamo messi bene: il nostro è il terzo Paese in Europa dove più si abbandona la scuola prima del diploma, tra i 18 e i 24 anni (12,7% contro la media Eu pari al 9,7%).
Le ricerche ci mostrano poi che per i giovani europei il lavoro rimane un valore centrale, per la transizione alla vita adulta e per l’acquisizione dell’autonomia economica, abitativa e psicologica (rimando a Giovani senza un futuro? Insicurezza lavorativa e autonomia giovanile oggi in Italia , volume da me curato nel 2018 per Carocci). I giovani cercano però un lavoro di qualità e dignitoso (si vedano ad esempio l’edizione 2022 del Rapporto della Fondazione Toniolo sulla condizione giovanile in Italia, edito dal Mulino, e R. Lodigiani e M. Santagati, Quel che resta della socializzazione lavorativa. Una riflessione sulle politiche europee per l’occupazione giovanile , “Sociologia del lavoro”, Special Issue, 141, 2016). Comparativamente, gli italiani registrano una maggiore difficoltà a raggiungere l’autonomia economica, a costruirsi i percorsi di lavoro in un mercato del lavoro flessibile, ma soprattutto a immaginare e progettare il loro futuro (Social Exclusion of Youth in Europe, cit.). Non riescono a individuare quali sono i loro obiettivi e non hanno la capacità di progettare i passi intermedi per raggiungerli, anche perché il contesto sociale e istituzionale in cui agiscono non offre loro gli strumenti per farlo.
Sono portatori di maggiori competenze digitali elevate, quelle che ci possono aiutare a fare una transizione verso un’economia e una società digitale. Ma la relazione tra competenze digitali e giovane età non è certo automatica, e occorre investire in questa direzione. Infatti i cosiddetti “nativi digitali”, pur utilizzando maggiormente i social network, non sanno usare gli strumenti digitali (v. il recente Report di Save the Children): il 29,3% dei ragazzi non sa scaricare i file scolastici dalla piattaforma, il 32,8% non sa utilizzare un browser per l’attività didattica, l’11% non è in grado di condividere uno schermo durante una chiamata con Zoom. Se analizziamo l’Indice Desi che misura i progressi compiuti dagli Stati membri per realizzare un’economia e una società digitali, scomposto nelle sue varie componenti, vediamo che il capitale umano non cresce in Italia dal 2016, al fronte della crescita di connettività e digitalizzazione.
Se questa è la situazione, non dovrebbe esservi alcun dubbio che occorra investire in politiche per i giovani. Spesso però questo accade solo per via indiretta, e di fatto i più giovani risultano esclusi dagli interventi delle politiche pubbliche. Le ricerche mostrano che, ad esempio, il livello di spesa per le politiche passive o attive del lavoro non ha un effetto moderatore sull’incertezza lavorativa e l’uscita dalla famiglia di origine. E ciò accade perché spesso i giovani non intercettano queste politiche o perché hanno difficoltà a reperire le informazioni; o, ancora, perché indirettamente alcuni criteri li escludono. Ad esempio, l’accesso alla disoccupazione per i giovani in Italia è limitato dal criterio assicurativo che lo regola, il fatto di non aver precedentemente versato nessun o pochi contributi non ne permette l’accesso tra un contratto e l’altro o nella transizione scuola-lavoro. Manca un sostegno economico, nella forma di un sussidio o di uno start-up di primo impiego, magari associato a politiche attive del lavoro come avviene in altri Paesi, in particolare durante la ricerca della prima occupazione. Il che potrebbe essere molto utile per sostenere il giovane mentre si sperimenta nel mercato del lavoro, al posto dell’aiuto (quando c’è) che viene dalle famiglie di origine, riducendo così la disuguaglianza tra chi può aspettare un buon impiego e chi deve accettare il primo che gli viene proposto.
Per rendere i giovani protagonisti, occorrerebbe invece disegnare un pacchetto di politiche a loro dedicate che integri gli aspetti dell’istruzione, orientamento, lavoro, casa, accesso al credito e agli investimenti
Anche nel tanto declamato Pnrr si è scelto di investire sui giovani come componente trasversale (con un generico riferimento al 30% di occupazione giovanile, tra l’altro eludibile): non esiste una missione a loro dedicata, ma le misure sono distribuite tra i vari pilastri di cui è composto il piano, col rischio di nuove esclusioni o marginalità. Sono invece presenti alcuni automatismi. Per esempio, si dà per scontato che un aumento di posti di lavoro digitalizzati implichi un accrescimento dell’occupazione giovanile, senza prevedere politiche specifiche di formazione o di incontro tra domanda e offerta di lavoro a supporto di questa supposta relazione.
Come si vede, si tratta di situazioni che si trasformano in occasioni mancate per rendere i giovani protagonisti di politiche specifiche. Occorrerebbe invece disegnare un pacchetto di politiche a loro dedicate che integri gli aspetti dell’istruzione, orientamento, lavoro, casa, accesso al credito e agli investimenti. Nel Pnrr la parte degli interventi strutturali per un futuro impatto sul lavoro, sulla formazione e l’orientamento a scuola e in università, si muove un po’ in questa direzione, anche se non tiene conto delle disuguaglianze sociali.
L’occasione elettorale avrebbe potuto essere un momento per rilanciare da parte dei partiti o di alcuni partiti la questione giovanile nello specifico. È bene ribadire che i giovani, se messi nella situazione di possibilità di utilizzare le loro potenzialità e responsabilizzati, possono essere grandi portatori di innovazione. Ma è necessario costruire le condizioni di contesto istituzionali che facciano emergere le loro potenzialità. Al momento, la volontà politica necessaria fatica a intravvedersi.
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