MARTINA NAPOLITANO Il tuo libro si intitola Le grandi dimissioni: che cosa si intende con questa espressione? In che senso “grandi”? Puoi provare a riassumere di chi parliamo e qual è la consistenza del fenomeno?
FRANCESCA COIN L’aumento delle dimissioni volontarie è un sintomo di una disaffezione al lavoro che è diventata visibile dopo la pandemia. È stato Anthony Klotz a parlare di great resignation per indicare un fenomeno che, negli Stati Uniti, ha avuto numeri effettivamente elevati, con 48 milioni di lavoratori che hanno presentato le dimissioni volontarie nel 2021 e 50 milioni circa nel 2022. Negli Stati Uniti, ci sono voluti dieci consecutivi rialzi dei tassi di interesse in quindici mesi per riportare il numero delle dimissioni volontarie a livelli pre-pandemici. Ma non si tratta di un fenomeno esclusivamente statunitense. La disaffezione al lavoro si è resa manifesta in molte altre parti del mondo nello stesso biennio, dalla Cina all’India, dal Regno Unito all’Europa, in ciascun Paese con forme diverse. Persino in Italia, dopo la pandemia, ci siamo trovati nella paradossale situazione di avere circa 5 milioni di persone disoccupate e scoraggiate e, nel contempo, interi settori incapaci di trovare personale.
MN In questo fenomeno si trovano coinvolte fasce d’età varie e settori lavorativi diversi?
FC A livello internazionale si è detto che il fenomeno riguardava soprattutto le giovani generazioni; in realtà, se prendiamo gli Stati Uniti, la crescita delle dimissioni volontarie ha riguardato soprattutto gli over 50. In generale, il deterioramento delle condizioni di lavoro cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è stato, spesso, trasversale alle generazioni, come è trasversale l’insoddisfazione nei luoghi di lavoro e il numero delle persone che credono che il lavoro non restituisca più una contropartita sufficiente per i loro sacrifici.
Il deterioramento delle condizioni di lavoro cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è stato, spesso, trasversale alle generazioni, come trasversale è la sensazione che il lavoro non restituisca più una contropartita sufficiente per i sacrifici che domanda
MN Sacrifici che vengono generati anche dal fenomeno delle dimissioni stesse che, in fondo, si autoalimenta: quando un lavoratore si dimette, i suoi colleghi sono spesso chiamati a sobbarcarsi anche le sue mansioni, finendo sotto un peso eccessivo che può portare ancora qualcun altro a dimettersi…
FC Questo avviene soprattutto quando alle dimissioni non fanno seguito nuove assunzioni per integrare organici che magari sono già ridotti all’osso, come accade nella sanità. In questo settore l’esistenza di un tetto di spesa per le assunzioni di personale spesso impedisce di sopperire alla fuga del personale verso l’estero, verso il privato o verso il lavoro autonomo. In questa situazione, capita che gli ospedali debbano assumere “gettonisti”, ossia personale che lavora in modo autonomo e che viene assunto da cooperative a costi più alti del personale strutturato. In questo caso, tuttavia, i costi vanno a gravare su una diversa voce di bilancio. Per molti versi, è un meccanismo che incentiva le dimissioni, perché il messaggio che il ricorso al lavoro autonomo manda al personale strutturato è che, in termini economici, dimettersi e lavorare come gettonista conviene, in quanto consente di avere compensi più alti e turni meno gravosi. E questo è un problema anche perché, in troppi casi, il personale che resta si trova a fare anche il lavoro dei colleghi che se ne sono andati, in una situazione che ne aumenta continuamente i carichi di lavoro e ne acuisce l’insoddisfazione. È chiaro che, in casi simili, ci troviamo in una situazione insostenibile, all’interno della quale le dimissioni, superata una certa soglia critica, rischiano di aprire a nuove dimissioni e di innescare un circolo vizioso.
MN Prendiamo il contesto italiano. La situazione lavorativa è precaria, c’è stato un deterioramento generale delle condizioni contrattuali; eppure, ciononostante, il sistema Paese in qualche maniera sembra andare avanti: è un segnale del fatto che il sistema si regge su una concatenazione di sfruttamento e di lavoro nero?
FC Il mercato del lavoro in Italia è cambiato molto negli ultimi decenni. La mancanza di una politica industriale, di investimenti in ricerca e sviluppo e più in generale di una visione di futuro ha portato al disinvestimento in settori strategici come l’informatica, la chimica o la farmaceutica. Importanti aree industriali sono state smantellate e il susseguirsi di crisi aziendali ha portato al diffondersi di crisi sociali in territori desertificati. In questo contesto, il mercato del lavoro è cambiato: da un Paese basato su una struttura manifatturiera e industriale, l’Italia è diventata un Paese fortemente terziarizzato. In alcune aree del Paese l’apertura di ristoranti e bar ha sopperito all’assenza di impiego, anche se si tratta di attività che, in un caso su due, falliscono entro cinque anni. In sostanza, abbiamo assistito a un generale impoverimento della struttura produttiva, del lavoro e del tessuto sociale, in un deterioramento complessivo delle condizioni lavorative a cui è andata di pari passo accostandosi una forte e diffusa cultura antisindacale. La crescita delle dimissioni volontarie è un esito di questa situazione, che è, a tutti gli effetti, una situazione emergenziale.
MN E proprio il settore della ristorazione che citavi è quello in cui, stando al rapporto Inps dello scorso anno, il 65% dei lavoratori risulta “lavoratore povero”. Un controsenso andare a lavorare per restare poveri.
FC Secondo il XXI Rapporto annuale Inps, nel 2021 il 20% dei percettori di Reddito di cittadinanza aveva un lavoro. Si tratta di persone che hanno percepito il Reddito di cittadinanza in modo stabile e avevano, nello stesso tempo, una posizione lavorativa attiva. La maggior parte di questi, scrive il rapporto Inps, lavorava come dipendente del settore privato e il 22% lavorava nella ristorazione. Sono persone che ricevevano un reddito così basso che non riuscivano a uscire dalla povertà neanche lavorando. Uno dei nodi proprio è questo: per anni abbiamo pensato che i lavoratori poveri fossero costretti a tenersi stretto il lavoro a ogni costo, perché non avevano alternative. Ma quando la retribuzione del lavoro scende sotto certe soglie, la contropartita che offre è così bassa che chi lo lascia non ha molto da perdere.
MN Che cosa pensi del Reddito di cittadinanza?
FC In Italia, come ha scritto l’Istat, durante la pandemia il Reddito di cittadinanza ha contribuito a salvare dalla povertà 1 milione di persone. La stampa, tuttavia, si è soffermata quasi esclusivamente sugli aspetti negativi, per esempio sui cosiddetti “furbetti”, persone che percepivano il Reddito di cittadinanza senza averne diritto. In generale, il Reddito di cittadinanza è stato descritto come un incentivo alla disoccupazione, e questa narrazione è problematica perché nasconde il fatto che in Italia la disoccupazione non è volontaria, ma dipende dal fatto che, come dicevamo prima, intere zone del Paese sono diventate deserti produttivi o fucine di lavoro povero. In questi contesti, non è raro che il Reddito di cittadinanza abbia costituito un’integrazione di reddito per coloro che svolgevano un lavoro sottopagato. È il caso, come abbiamo visto, della ristorazione, in cui il Reddito veniva percepito non tanto da “divanisti”, quanto da lavoratori in regola il cui reddito era comunque al di sotto della soglia di povertà.
Il Reddito di cittadinanza è stato descritto come un incentivo alla disoccupazione: ma la disoccupazione non è volontaria, dipende dal fatto che intere zone del nostro Paese sono diventate deserti produttivi o fucine di lavoro povero
Spiace, inoltre, che la stampa non abbia riportato i casi in cui il Reddito di cittadinanza è riuscito a diventare un incentivo al lavoro, permettendo ad alcune persone di trovare un impiego più in linea con le proprie competenze. In generale, l’Italia è molto indietro rispetto agli altri Paesi europei in termini di istituzione di un Welfare universale, e questo significa che la riforma in senso restrittivo del Reddito di cittadinanza lascia senza reddito persone che vivono in parti d’Italia dove il lavoro non c’è, senza che nessuno si preoccupi delle conseguenze.
MN Invece, visto il dibattito degli ultimi tempi, come vedi l’idea dell’introduzione di un salario minimo?
FC In Italia quasi 5 milioni di persone guadagnano meno di 9 euro lordi all’ora, in particolare nel settore turistico, domestico, nelle pulizie, nella vigilanza e in agricoltura. In alcuni casi, salari al di sotto della soglia minima sono previsti da contratti collettivi, come accade nel caso dei vigilantes. Salari così bassi, ha stabilito di recente la Cassazione, sono contrari a quanto sancisce l’articolo 36 della Costituzione, che prevede che la retribuzione debba essere “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il salario minimo nasce per porre fine a situazioni come queste. Peccato che in molti casi i salari bassi non vengano percepiti come un problema, ma come un’opportunità. Lo ha detto chiaramente l’allora premier Matteo Renzi, quando ha suggerito agli investitori stranieri di investire in Italia perché ci sono i salari più bassi d’Europa.
MN Si parla spesso delle giovani generazioni come oziose e lagnose, poco disposte al lavoro. C’è da dire che vengono anche fuori da una scuola che è molto diversa oggi, una scuola dove l’alternanza scuola-lavoro insegna loro che è normale lavorare gratuitamente.
FC Nelle scuole bisognerebbe insegnare il diritto del lavoro, per consentire alle nuove generazioni di avere tutti gli strumenti normativi necessari per opporsi al dumping contrattuale e salariale. Invece l’alternanza scuola-lavoro educa al lavoro gratuito, e questo è il contrario di quello che bisognerebbe fare.
MN Alla luce di tutto ciò, come vedi il futuro del lavoro? Ci sono dei casi virtuosi, come quello spagnolo, dove una recente riforma ha cercato di trasformare i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato per intervenire contro la precarietà . O la Francia, dove ad esempio Jean-Luc Mélenchon ha ripreso il motto “lavorare meno, lavorare meglio” (“il problema non è più produrre di più, ma produrre meglio e per farlo dobbiamo lavorare meglio e dunque lavorare meno”).
FC Il mondo del lavoro è ancora organizzato formalmente sulla base del modello fordista. Un secolo fa, Ford ha introdotto la settimana lavorativa di cinque giorni e la giornata lavorativa di otto ore. Oggi, nonostante vertiginosi aumenti in termini di capacità produttiva, questo è ancora l’orario di lavoro standard. Di recente, Richard Godwin ha spiegato al “Guardian” perché ridurre la settimana lavorativa potrebbe essere la soluzione a ogni problema e un antidoto persino contro le fughe di personale. La settimana lavorativa di quattro giorni senza alcuna modifica della retribuzione – come mostra la campagna 4 Day Week – permette di aumentare la produttività, favorisce il benessere dei dipendenti, consente un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata, migliora la salute fisica e mentale, aiuta a creare una divisione più equa del lavoro domestico e di cura, riduce gli spostamenti in auto e, con essi, le emissioni di carbonio. In un’epoca attanagliata dalle crisi, esperimenti come questo, oltre che le altre riforme che abbiamo già menzionato, andrebbero messi al centro dell’agenda politica. Le attuali politiche del lavoro, al contrario, vanno in direzione opposta e ricordano, per più versi, l’Ottocento inglese, quando i poveri venivano costretti a lavorare per paghe infime nelle workhouse, carceri dove il lavoro era coatto per bambini, poveri, anziani e disabili. Con le debite differenze, preoccupa che l’immaginario del governo sia rivolto più all’Ottocento che al terzo millennio.
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