«Chi non vuole discutere lo dica»: il giorno dopo le sue dichiarazioni, Giuliano Poletti reagisce alle critiche che avevano destato le sue parole di venerdì a proposito dello “sganciamento” delle retribuzioni dall’orario di lavoro. Innanzitutto tra i sindacati, ma non solo. Nell’intervista rilasciata ieri a «Il Sole 24 Ore», Poletti sostiene di non accettare “le distorsioni e le banalizzazioni”. Né le une né le altre fanno bene al dibattito, men che meno se si parla di occupazione. Ma occorrerebbe evitare il rischio proprio a partire da chi ha una veste istituzionale. Si dà il caso che, indipendentemente dalla sede in cui le parole vengono pronunciate, un ministro resti, sempre e comunque, tale. E se un ministro del Lavoro afferma pubblicamente che «l’orario di lavoro è un parametro vecchio» non può poi credere che ciò non scateni qualche reazione.
Polemiche a parte, ancora una volta la categoria chiave invocata nell’immaginare nuovi criteri di retribuzione è «flessibilità». Una parola trasformata negli anni in una sorta di vero e proprio feticcio della – troppo spesso presunta – modernizzazione del lavoro. Parlare, come fa Poletti, di «cambiamento del mondo del lavoro che incorpora sempre più elementi di responsabilità, motivazione e partecipazione attiva» può essere utile (e molto) solo a patto che non lo si faccia a senso unico, impostando il ragionamento e i presupposti di nuove forme contrattuali legati in primo luogo alla responsabilità e all’atteggiamento del lavoratore e tralasciando invece di considerare, quasi sempre, le dinamiche aziendali che responsabilità e motivazione dovrebbero promuovere.
Tuttavia, in un contesto fatto di dati economici che stentano a confermare i primi, tiepidi segnali di ottimismo (anche, secondo il ministro dell’Economia Padoan, a causa del rischio terrorismo) e in assenza di qualsivoglia riscontro sugli auspicati benefici effetti del Jobs act – per i quali, evidentemente, bisognerà attendere almeno i primi tre anni dall’entrata in vigore del provvedimento – la tendenza dominante pare essere quella di una rivisitazione delle tradizionali forme del rapporto di lavoro che ridiscuta il ruolo del lavoratore. Così facendo si invocano, prima di ogni altra cosa, la riparametrazione del compenso in base agli obiettivi, fingendo di dimenticare quanto il mantenimento di qualsiasi target dipenda dal mercato, da un lato, e dalla capacità di adattamento e di modernizzazione dell’azienda, dall’altro.
Mentre ancora non si conoscono i dettagli dell’annunciata nuova normativa detta dal governo, con una delle consuete formule smart cui ci ha abituati, del «lavoro agile», l’esecutivo guidato da Matteo Renzi sembra voler puntare sul maggior peso della contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale. Il ministro Poletti dice di essere rimasto molto favorevolmente colpito da una sua recente visita allo stabilimento della Ducati, dove la flessibilizzazione del lavoro di fabbrica ha assunto aspetti di straordinaria modernità ed efficienza. Un prestigioso marchio italiano a guida tedesca, non un’azienda qualsiasi a guida italiana.
Ecco, in attesa che manager moderni e capaci di motivare chi lavora per loro non siano più un’eccezione, forse sarebbe meglio non etichettare come pericolose ideologizzazioni premoderne le reazioni allarmate dei sindacati alle idee di revisione dei contratti. Pena la rottura a prescindere di quello spirito di concertazione che tante volte ha dato i suoi frutti nella storia delle relazioni industriali del nostro Paese.
Riproduzione riservata