La vertenza Almaviva, pur così rilevante nella sua dimensione occupazionale, è solo la punta di un iceberg. È un esempio delle difficoltà della nostra società, e in genere di molte società europee e dei Paesi avanzati, a garantire un lavoro stabile, con una retribuzione decente, a tanti suoi cittadini.
Sul perché questo accada ci sono state molte riflessioni negli ultimi anni. È il frutto di strategie di decentramento verso Paesi a costo del lavoro molto più basso di tanti segmenti di attività produttive che possono essere realizzate a distanza; fenomeno che, ci dicono le ultime rilevazioni, sta crescendo meno che in passato ma che rimane molto ampio. È l’effetto sul mercato del lavoro di innovazioni tecnologiche che, in molte mansioni ripetitive, standardizzabili, consentono di sostituire le nuove, avanzate, macchine all’uomo; così che si può risparmiare, e molto, dall’applicazione di tecnologie a base digitale nella produzione di beni e nell’erogazione di servizi.
Ma è anche la ricaduta di grandi scelte politiche, in corso da un trentennio circa. La massima libertà del movimento dei capitali all’interno dell’Europa, e nel mondo, fa sì che essi riescano sempre più e meglio a sfuggire alla tassazione (come dimostrò qualche mese fa la vicenda della Apple in Irlanda); rende difficile per gli Stati sovrani richiedere al «capitale» il giusto contributo fiscale. E li costringe quindi a inasprire la tassazione sul lavoro, rendendone il costo più alto. E quindi favorisce la sostituzione dei lavoratori europei, italiani, con lavoratori di Paesi con un sistema pubblico meno sviluppato, con minore Welfare e quindi con minori esigenze fiscali; siano essi in Asia, o assai più vicini a noi, nell’Europa dell’Est. O la sostituzione del lavoro con le macchine: sostituzione che premia – in un circolo vizioso – assai più chi possiede il capitale che chi offre il proprio lavoro. Una regolamentazione che è andata in molti casi ben oltre la necessità di renderlo «flessibile»; e che lo ha reso invece «precario», a chiamata: come indirettamente mostra lo stesso boom dei voucher in Italia. Infine, con la dissociazione del ruolo di lavoratore e di consumatore di tanti cittadini: premiati, nei loro comportamenti di consumo, da norme mirate a favorire concorrenzialità e riduzione dei prezzi ad ogni costo; ma proprio per questo puniti nel loro ruolo di lavoratori.
Dire tutto ciò non significa rinviare ai massimi sistemi il commento a una vicenda, come quella Almaviva, che vede coinvolte centinaia e centinaia di lavoratori. Significa sostenere che non si tratta, purtroppo, di una eccezione; ma di una vertenza che ha in sé diversi elementi più generali. La strada maestra per affrontare questi casi non sta nel mettere toppe (pur necessarie); ma nel riflettere sulle cause di fondo di questi fenomeni, e sui possibili rimedi.
È un compito grande ma indispensabile quello che ha di fronte a sé, nei prossimi anni, l’Italia, e con lei gran parte dell’Europa: ridefinire i doveri ma anche i diritti del lavoro, dei lavoratori, nella nostra società. Senza nostalgie di un passato lontano, di cui ricordiamo bene i tanti aspetti negativi, le esagerazioni: che ha reso la nostra società troppo sclerotica. Ma senza l’accettazione supina delle trasformazioni dell’ultimo trentennio, che l’ha resa troppo instabile e incerta. Accettazione supina: come se non vi sia possibile alternativa; come se le riforme da fare siano ancora di più quelle che accentuano questi fenomeni. Ignorando che un’alternativa è a portata di mano: una fascia sempre più grande di cittadini delusi, amareggiati, preoccupati – come quelli degli Stati della «cintura della ruggine» americana che hanno dato la presidenza a Trump – che finisce con il ribellarsi e sostenere posizioni di radicale rottura, richiedere una protezione impropria fatta di nazionalismo e di protezionismo. Forse è meglio pensarci su seriamente.
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