Come ormai di rito, alle ultime dichiarazioni di Monsignor Galantino, che ha richiamato ancora una volta al dovere di accogliere i profughi e i rifugiati in viaggio verso l’Europa, hanno fatto seguito le proteste di chi sostiene che l’accoglienza non è possibile per tutti. E anche questa volta, in soccorso della tesi a favore dell’accoglienza, sono arrivate le voci di chi ci ha ricordato che queste nuove ondate migratorie, lungi dall’essere una disgrazia, sono per noi un’«opportunità» e una «risorsa». L’Europa, si sa, sta subendo un rapido e preoccupante processo di senescenza. Fra pochi anni, lo squilibrio demografico produrrà il collasso dei sistemi pensionistici e del Welfare. I rifugiati, si dice, sono in grado di infondere nuova linfa vitale a questo continente che non è più in grado di riprodurre le condizioni della propria sopravvivenza sociale ed economica.
Questi discorsi sono certamente animati dalle migliori intenzioni e possono apparire come un utile antidoto allo scomposto catastrofismo che anima molti dibattiti sull’emergenza rifugiati. Tuttavia, dovrebbero essere fatti con una certa cautela. Il rischio è che portino a una fallace equiparazione fra rifugiati e migranti economici. Si tratta di un assunto non solo errato dal punto di vista morale, ma anche controverso dal punto di vista empirico.
Parlare di «opportunità» e di «risorsa» può avere senso quando si invita all’accoglienza di chi si sposta in cerca di un lavoro; se riferito a chi sta fuggendo da catastrofi umanitarie immani, suona ‒ anzi è ‒ irrimediabilmente cinico. Inoltre, porta a equiparare migranti economici, profughi in cerca di protezione umanitaria e rifugiati in senso stretto, facendo torto a persone che hanno percorsi di vita, motivazioni e bisogni molto diversi. È proprio questo errore prospettico, come è stato denunciato da alcuni critici, che impedisce ad esempio di comprendere l’importanza dei diritti procedurali e delle speciali garanzie che spettano ai richiedenti asilo, mettendo in primo piano semplicemente la loro effettiva possibilità di accedere ad assistenza e lavoro.
L’insistenza sui rifugiati come «risorsa» è fuori luogo anche per altri versi. È un fatto ormai spesso ricordato che i migranti economici producono un saldo netto positivo per i Paesi ospiti; contribuiscono, per capacità produttiva e versamenti al sistema previdenziale, molto più di quanto sottraggano. Tuttavia, come emerge da un rapporto del Fondo monetario internazionale del gennaio scorso, effetti simili non sono scontati nel caso dei rifugiati che sono arrivati negli ultimi due anni in Europa e dei potenziali richiedenti asilo futuri. Infatti, la capacità di contribuire alla ricchezza economica del Paese ospite dipende dalla effettiva possibilità di integrazione nel mondo del lavoro, e quest’ultima a sua volta dipende non solo ovviamente dalle condizioni economiche del Paese di residenza, ma anche dall’età dei migranti, dal sesso, dalla qualifica professionale pregressa e dal suo riconoscimento, dalle capacità linguistiche e dallo stato di salute, inclusa quella psicologica. La composizione demografica e il retroterra dei rifugiati solo in alcuni casi, ma non sempre, garantiscono che tutte queste condizioni siano soddisfatte nel modo ottimale. È vero che molti rifugiati siriani della prima ora erano maschi giovani e dotati di un livello di istruzione medio piuttosto alto. Tuttavia, negli ultimi mesi i dati sono cambiati; a differenza di quanto è avvenuto per tutto il 2015, i richiedenti asilo in Europa non sono più in maggioranza uomini, ma donne e bambini. Come ha evidenziato un rapporto recente stilato per la Commissione per i diritti della donna e l’eguaglianza di genere del Parlamento europeo, le donne incontrano enormi difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro del Paese ospite e il loro tasso di disoccupazione è estremamente alto. Fra i rifugiati, molto di più che fra i migranti economici, le donne e i bambini sono soggetti a forme di vulnerabilità estrema e possono diventare facilmente vittime di traffico, spesso anche dopo essere arrivati nei Paesi di accoglienza. Il loro inserimento nell’economia legale del Paese ospite non è né facile né scontato.
Queste considerazioni non valgono a screditare gli appelli a una più generosa accoglienza, ma a sottolineare due fatti fondamentali. Il primo è che le considerazioni di convenienza, in queste circostanze, non solo sono di cattivo gusto, ma a dispetto delle loro buone intenzioni rischiano di non favorire affatto la causa dei rifugiati. Le decisioni dei Paesi democratici in queste materie non dovrebbero essere prese e giustificate sulla base di calcoli economici, ma sulla base dei principi della morale e del diritto internazionale. Il secondo è che in questi frangenti occorrono sì prudenza e calcolo, ma non per convincere il pubblico democratico che tutto sommato quello dei rifugiati è un buon affare, bensì per evitare che un facile ottimismo sulla sorte dei rifugiati e sulla loro capacità di integrarsi nei Paesi di accoglienza permetta gravi forme di iniquità e sfruttamento. Non si può contare sul «naturale» assorbimento nel mercato del lavoro dei richiedenti asilo, o sulle loro doti di imprenditorialità individuale. L’integrazione e l’accoglienza hanno bisogno di essere guidate e sostenute con adeguate risorse, investimenti, senso di giustizia e un enorme dispiego di intelligenza progettuale.
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