Rivisitare vecchi modelli di auto oggi si usa e funziona. Rivisitare un modello interpretativo che osserva un terreno accidentato come quello migratorio, attraversato da tensioni di ogni genere e segnato dall’ombra del terrorismo, è un azzardo. Affronto il rischio e ripropongo un prodotto ideato alla fine degli anni Novanta, quando presiedevo la Commissione per l’integrazione degli immigrati. Secondo quel modello, i principali obiettivi delle politiche di integrazione degli immigrati sarebbero quattro. Primo obiettivo: un impatto positivo o almeno non dannoso sul Paese di arrivo. Secondo obiettivo un simile impatto sul Paese di origine. Già questi due scopi sono un esempio della difficoltà di conciliare tutti gli obiettivi desiderabili.
Gli immigrati altamente qualificati sono più facili da integrare e uno studio Ocse del 2014 conferma il loro prezioso contributo in tutte le economie avanzate; ma il Paese di origine che ha pagato la loro formazione e anche le famiglie che li hanno allevati non ne ricavano grandi vantaggi; proprio perché si inseriscono meglio, questi immigrati investono nel Paese di arrivo e mandano meno soldi in patria. Il nostro sistema produttivo e il nostro Welfare familiare attraggono soprattutto lavoratori poco qualificati, mentre esportiamo crescentemente diplomati e laureati. Il che non significa che vadano necessariamente a ricoprire mansioni pregiate: delle competenze di alcuni nostri espatriati non c’è richiesta neppure all’estero. In Italia una laurea qualunque la facciamo bastare in un concorso pubblico, magari a scapito di candidati competenti ma senza quel titolo, ma quel pezzo di carta non basta a fare un cervello appetibile a livello internazionale. Un terzo obiettivo dell’integrazione degli immigrati riguarda le opportunità di una vita decorosa. Quasi tutte le rilevazioni dell’integrazione si occupano soprattutto di questo aspetto. Osservano, ad esempio, che i lavoratori immigrati sono più disoccupati, vivono in quartieri peggiori e i loro figli vanno peggio a scuola. Ma, quanto a disoccupazione, vale la pena di osservare che i giovani italiani se la cavano anche peggio degli immigrati. Aggiungo che i lavoratori stranieri appaiono più disoccupati anche perché sono più presenti sul mercato del lavoro; infatti, almeno in Italia, anche il loro tasso di occupazione è più alto di quello dei nazionali. Non solo, in alcune regioni gli studenti stranieri vanno meglio dei figli degli italiani. Non a caso sono quasi le stesse regioni che hanno boicottato la rilevazione delle competenze attraverso il sistema Invalsi.
La chimera meritocratica, che si dice di cercare all’estero, lasciandosi alle spalle un Paese che non riconosce il merito, la si rifiuta poi nella pratica italiana, soprattutto quando si tratta di incentivare le aree più svantaggiate a produrre competenze e meriti. Nel presentare il mio vecchio modello sottolineavo l’importanza che alle opportunità di buona vita per gli immigrati si accompagnassero opportunità reali e visibili per i nazionali, che si evitasse cioè la «guerra tra poveri». Indicavo, infatti, come quarto e principale obiettivo delle politiche di integrazione un’interazione positiva, o almeno a basso conflitto, tra nazionali e immigrati. Per raggiungere questo scopo i buoni argomenti (tipo «l’immigrazione può ringiovanire la nostra popolazione» e «può colmare carenze di manodopera in mansioni necessarie») non bastano. Serve qualcosa di più robusto.
Come mi capita guardando affettuosamente la vecchia Fiat 500 rispetto alla nuova, anche il mio vecchio modello, a distanza di tempo, mi appare terribilmente fragile. Allora non avevo ancora partecipato direttamente o imparato abbastanza da tante ricerche comparate che hanno dimostrato l’importanza del livello locale. È lì che le strategie politiche si attuano e sono messe alla prova ed è lì che devono acquistare robustezza: contano le micro strategie di integrazione, gli interventi anche a livello di quartiere. Oggi lo si vede con i nuovi arrivi di rifugiati.
Il sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo (Sprar) prevede che i comuni si candidino volontariamente ad accoglierne alcune quote ricevendo fondi ad hoc. Della sistemazione pratica si occupano cooperative e centri del privato sociale. I centri di accoglienza per i richiedenti asilo (Cara), invece, sono coordinati dal governo centrale. Tralascio i casi di plateale corruzione emersi, perché purtroppo non sono una peculiarità di questo tipo di interventi pubblici. È un altro il canale di accoglienza che sta generando in questi giorni polemiche, come sempre troppo selvagge quando si tratta di immigrati. A fronte di emergenze, il ministero dell’Interno, attraverso i prefetti, attiva centri di accoglienza straordinaria (Cas). Sono soprattutto questi ultimi, cioè gli arrivi non programmati, che hanno prodotto tensioni tra comuni e prefetture, rigetti e rivolte degli abitanti dei luoghi prescelti. La rabbia diventa un forte collante tra gli abitanti dei quartieri disagiati e può essere indirizzata agevolmente ad opera di gruppi razzisti (non solo in Italia) contro stranieri bisognosi di tutto.
Quella rabbia di chi vive troppo male è comprensibile, ma andrebbe indirizzata verso obiettivi concreti e utili: migliorare l’illuminazione pubblica e i trasporti, ottenere strade e scuole meno dissestate. Si tratta di imitare, quando si può, il metodo del community building, della costruzione di una comunità intorno a scopi positivi. Nato negli Stati Uniti, il metodo è in espansione anche in Europa. Per attuarlo servono sinergie tra organizzazioni della società civile: ad esempio tra rappresentati di diverse comunità religiose, tra associazioni di commercianti, di proprietari di case, di costruttori edili. Servono attivisti dei partiti democratici, circoli di quartiere, se possibile anche fondazioni e privati generosi di idee e di denari. Si tratta di condizioni più difficili da trovare proprio nei luoghi che ne avrebbero più bisogno. Perciò occorrono soprattutto seri e capaci imprenditori sia sociali che politici capaci di mobilitare le risorse umane e finanziarie necessarie. Le scorciatoie sono state e saranno purtroppo vie obbligate nell’emergenza, ma dobbiamo lavorare per evitarle in futuro. È una considerazione che sta trovando ascolto nel ministero dell’Interno e nelle prefetture: lo sveltimento delle pratiche, la riforma del sistema dei Centri di accoglienza per richiedenti asilo e dei Centri di accoglienza straordinaria sono ai blocchi di partenza. Tuttavia, trasformare quartieri disperati e rabbiosi in comunità è un tassello di un compito ben più vasto: integrare non solo e non tanto gli immigrati, ma gli italiani. Un compito che spetta soprattutto alla politica.
[Questo articolo è stato pubblicato su «La Stampa» del 23 luglio]
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