Chi venerdì è transitato dal centro storico di Bologna non ha potuto non accorgersene. I mezzi e gli agenti delle Forze dell’ordine non si potevano ignorare. Il giorno prima il prefetto Matteo Piantedosi aveva cercato di rassicurare tutti: “In città non c’è un clima pesante e tutti potranno esprimersi liberamente in campagna elettorale”. A Forza Nuova, formazione politica in lizza alle elezioni del 4 marzo, era stata assegnata la centralissima piazza Galvani per un comizio. Sappiamo com’è andata. Nel primo pomeriggio un gruppo di persone ha tentato di occupare la piazza per renderla indisponibile al raduno neofascista previsto per le sette e mezza di sera, ma è stato subito sgomberato con decisione dalla polizia. Successivamente, poco distante, si sono formati due assembramenti: uno in piazza Nettuno (più istituzionale), ai piedi del sacrario ai caduti; un altro un po’ più in là, all’angolo tra piazza Maggiore e via dell’Archiginnasio, inizialmente composto da un centinaio di persone. I collegamenti tra la piazza data in gestione a Forza Nuova e gli altri due gruppi sono stati resi impossibili dalle Forze dell’ordine, che hanno installato cancellate e si sono schierate militarmente. Il contatto tra chi manifestava contro il comizio di Forza Nuova e la polizia alla fine c’è comunque stato, con alcuni contusi manganellati tra i primi, inclusa una giornalista, e qualche poliziotto uscito malconcio dagli scontri. Successivamente, il gruppo dei manifestanti si è via via ingrossato, spostandosi lungo la via Rizzoli: molte centinaia di persone, almeno un paio di migliaia. Diversi filmati e immagini che sono passati sui social network mostrano in effetti un mucchio di gente, moltissimi giovani, che occupavano fisicamente la strada al grido (ben più che legittimo e democratico) di “fuori i fascisti da Bologna”. Nel dubbio che uno scontro con gli esponenti di Forza Nuova che nel frattempo avevano raggiunto piazza Galvani – un gruppetto sparuto di trenta, quaranta persone – potesse comunque esserci, le Forze dell’ordine hanno utilizzato idranti e lacrimogeni per mantenere, appunto, l’ordine. Al solito, le frange estreme dei collettivi hanno trovato il modo di distinguersi: prima con un’invasione non esattamente pacifica in Consiglio comunale, per accusare di complicità con i fascisti la giunta e il sindaco. Poi, nel pomeriggio, cercando di alzare i toni alla ricerca dello scontro fisico. In realtà palazzo d’Accursio aveva chiesto alla Questura di spostare il comizio in periferia, ma senza successo. Anche i popolarissimi componenti dello Stato Sociale, reduci dai successi sanremesi, avevano tentato un appello pubblico su Facebook in tal senso, ma inutilmente. Tuttavia, a cose fatte, in molti si sono chiesti fino a che punto sia davvero impotente la macchina comunale rispetto agli emissari del Viminale. E in particolare la domanda ha iniziato a girare visto come sono andate le cose nella vicina Carpi, dove il comune è riuscito a far spostare il comizio dalla centrale piazza Garibaldi a un luogo più periferico, anche in virtù del regolamento comunale sull’uso degli spazi pubblici.

Questa la cronaca. Ma, superata la cronaca, la vicenda si presta ad alcune considerazioni che vanno molto oltre la contingente campagna elettorale di un gruppo di neofascisti. Riportando innanzitutto in auge la questione della legittimità di manifestazioni di stampo fascista in luogo pubblico. A cominciare dalla XII delle disposizioni transitorie della Costituzione, passando dalla legge Scelba del ’52 e dalla legge Mancino del ’93, gli estremi, chiari, per impedire a gruppi di persone di manifestare con evidenti richiami alla ideologia fascista ci sono tutti. Tanto da rendere ridondante il dibattito che, in coda alla legislatura che si è appena conclusa, è ruotato intorno alla proposta di legge avanzata per il Partito democratico da Emanuele Fiano. La legge parla chiaro. E si aggiungono alcune pronunce, come quella che di recente ha visto il Tribunale amministrativo di Brescia dare torto proprio a Forza Nuova che al Tar si era rivolta dopo avere incassato da parte del Comune di Brescia il rifiuto di una piazza per tenervi un comizio.

Dispute giuridiche a parte (chi difende il diritto anche di un fascista di manifestare in pubblico il proprio pensiero si rifà ogni volta agli artt. 3 e 21 Cost., naturalmente) l’aspetto interessante di vicende come quelle di venerdì a Bologna è, da un lato, l’atteggiamento della stampa; dall’altro, i giudizi della politica, inclusi quelli provenienti dalle divisioni interne alla sinistra, per quanto si possa ancora parlare genericamente di sinistra. Sul primo aspetto è stato interessante sabato mattina scorrere i titoli dei quotidiani locali, che in pochi casi hanno usato la parola “fascismo” e i suoi derivati; e in molti altri presentavano la manifestazione e la responsabilità degli scontri (in verità, e per fortuna, assai contenuti) come equamente distribuiti. Senza resistere in qualche caso (come già in passato) alla tentazione di presentare gli antifascisti colpevoli di aver tentato di impedire un comizio di fascisti. Arrivando anzi a equiparare gli uni agli altri; finendo col caricare più sui primi, gli antifascisti, l’etichetta dei secondi, i fascisti. In questi casi i più fini pretendono di tirare in ballo nientemeno che un grande intellettuale, bolognese di nascita, quando parla di fascismo degli antifascisti. Naturalmente senza peritarsi in alcun modo di capire in che contesto e a proposito di cosa, a metà degli anni Settanta, Pier Paolo Pasolini usi una simile espressione:

“si estrapolano paradossi come ‘il fascismo degli antifascisti’ per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – ‘continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno’”.

Anni terribili, quelli. Brescia e Bologna ne sanno qualcosa. Tanto che, ingenuamente, in occasione di una manifestazione nel cuore di Bologna di un partito neofascista come Forza Nuova - che dopo i fatti di Macerata si è affrettato a prendere le parti del fascio-leghista Luca Traini - ci saremmo aspettati che qualcuno ricordasse chi è Roberto Fiore, che di Forza Nuova è il capo. E quali sono stati i suoi legami con l’estrema destra negli anni dello stragismo, “condannato per banda armata e associazione sovversiva come capo di Terza posizione, l’organizzazione che alla fine degli anni Settanta riunì alcuni dei criminali più violenti della destra eversiva (…), il gruppo armato che ha allevato una legione di terroristi neri poi confluiti nei Nar”, di cui fecero parte “i suoi ex camerati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, riconosciuti colpevoli della strage di Bologna”.

Chissà come devono essersi sentiti, venerdì, di fronte a un gruppo di camerati che protetti da quattrocento poliziotti gridavano “boia chi molla” alzando il braccio teso; e poi, sabato mattina, assistendo ai giudizi politici e ai vari distinguo, i parenti delle 85 vittime del 2 agosto 1980.

“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo (…) Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato. Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza” (Sandro Pertini, dal discorso tenuto a Genova il 28 giugno 1960).

 

 

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