Se consideriamo l’ultimo mezzo secolo o poco più, vediamo come l’accesso alla carriera universitaria e la sua progressione siano stati caratterizzati almeno da un paio di costanti: una selezione parallela attraverso sanatorie e «pertugi», come qualcuno li ha definiti, e il progressivo prevalere del localismo nelle scelte concernenti la docenza universitaria.
Per quel che riguarda gli appena ricordati «pertugi», cioè le varie forme attraverso le quali è stato di fatto aggirato il meccanismo del concorso pubblico, cito ad esempio il caso dei professori incaricati, nominati dal Consiglio di facoltà, che alla fine degli anni Sessanta vennero prorogati automaticamente e poi, con il Dpr 382/80, diventarono tutti professori associati attraverso un giudizio di idoneità a loro riservato. Questa e altre forme di ope legis avevano dietro una questione reale: il ritardo nell’adeguare i ruoli della docenza alle esigenze dell’università di massa. Fatto sta che il nuovo ruolo degli associati, che prevedeva 15 mila posti, venne rapidamente saturato.
Osservazioni analoghe si potrebbero fare sugli appartenenti a varie categorie di precariato – assegnisti, contrattisti, borsisti – anch’essi dapprima stabilizzati e poi entrati dopo un giudizio di idoneità (ovviamente positivo) nel nuovo ruolo, che la stessa norma aveva creato, di ricercatore universitario (anche in questo caso saturandolo, con oltre 12 mila ingressi sui 16 mila previsti). Il Dpr 382/80 stabiliva anche una periodicità biennale per i successivi concorsi di professore di I e II fascia, mai però rispettata. Tra il 1981 e il 2000 vi furono soltanto tre tornate concorsuali per gli ordinari e altrettante per gli associati.
Quanto detto non implica, è ovvio, che tutti coloro che entrarono nei ruoli universitari grazie a meccanismi più o meno riservati, a sanatorie più o meno mascherate, non lo meritassero. Dal punto di vista dei singoli può esser vero il contrario. Ma dal punto di vista della qualità generale del sistema, possiamo ipotizzare dei danni permanenti, legati ad alcune peculiari modalità dell’accesso che con la riforma contenuta nel Dpr 382/80 assunsero dimensioni prima mai raggiunte: il caso, anzitutto nella forma di un dato meramente anagrafico, essendo esistiti anni buoni e anni cattivi per l’accesso e la carriera; una discrezionalità spesso opaca; la costante incertezza quanto alle prospettive.
Oltre alle forme surrettizie di accesso e carriera di cui ho appena detto, l’altro aspetto rilevante – che nel lungo periodo ha favorito il prevalere del localismo – riguarda l’evoluzione delle modalità concorsuali. Il Dpr 382/80 prevedeva concorsi per associati e ordinari su base nazionale, con commissioni votate dagli appartenenti a ciascuna disciplina, affiancando all’elezione il sorteggio. Per gli ordinari il sorteggio eliminava la metà degli eletti; per gli associati interveniva prima, designando gli eleggibili. Questo sistema riconosceva che la carriera universitaria non può che basarsi sulla cooptazione: una parola, e una pratica, che nell’Italia delle battaglie anticasta ormai molti considerano meritevole di attenzione solo da parte delle procure della Repubblica. Nonostante i casi, che non potevano mancare, di vincitori discutibili, il sistema aveva un pregio: la cooptazione avveniva sotto lo sguardo dei propri colleghi, dei quali si doveva ottenere il voto. Il rischio di far prevalere i gruppi accademici e le «scuole» più forti veniva corretto o mitigato dal sorteggio.
Il successivo sistema fu quello introdotto nel 1998 dal ministro Berlinguer, con cui si istituivano concorsi locali per ciascun posto di associato o ordinario. La commissione era elettiva, integrata da un commissario di facoltà e designava due idonei (tre nella prima applicazione). Il funzionamento reale del meccanismo consisteva nel fatto che i commissari assicuravano, prima ancora d’essere nominati (e di fatto come condizione per esserlo), che nel concorso (ora chiamato «valutazione comparativa») avrebbero designato come idoneo il candidato locale ma avrebbero potuto poi decidere liberamente del secondo idoneo, che poteva essere chiamato da un’altra sede. Sto descrivendo il funzionamento effettivo di quel meccanismo di selezione, che faceva premio sulle regole formali previste dal legislatore che naturalmente qualunque commissario rispettava.
E qui risiede una grave responsabilità dei professori universitari: non abbiamo mai neppure tentato di spiegare che i concorsi universitari sono una cosa diversa dagli altri concorsi pubblici, che entrare nella carriera accademica non è come vincere un posto in un ministero o una cattedra in un liceo. Dunque il rispetto dell’art. 97 della Costituzione richiederebbe regole radicalmente diverse, che puntino non a eliminare bensì a normare la cooptazione, come di fatto avveniva con il Dpr 382/80. Poi il legislatore ha preso un’altra direzione, con l’avallo sostanziale del mondo accademico che ha preferito aggirare le norme, secondo il vecchio detto «a brigante, brigante e mezzo». Ma a ogni ricorso al Tar che finiva sui giornali, i professori universitari si sono trovati di nuovo bersagliati dall’accusa d’essere una casta di corrotti.
Le regole introdotte da Berlinguer portarono al successo dei candidati locali, non sempre immeritevoli ma certe volte – diciamo la verità – sì
Le regole introdotte da Berlinguer portarono al successo dei candidati locali, non sempre immeritevoli ma certe volte – diciamo la verità – sì. In questi casi, ricercatori con poche e modeste pubblicazioni riuscirono a procedere nella carriera, diventando magari ordinari, poi commissari essi stessi nei concorsi. La deriva localistica della carriera universitaria poté verificarsi per il combinato disposto delle nuove regole concorsuali e del procedere dell’autonomia finanziaria degli atenei, che negli anni Novanta avevano visto l’abolizione dell’organico docenti e la possibilità di distribuire le proprie risorse senza essere vincolati a un numero fisso di posti per la I fascia, la II fascia, i ricercatori. In questo modo diventava enormemente più conveniente far diventare associato un proprio ricercatore e ordinario un proprio associato, piuttosto che avere dei docenti dall’esterno che avrebbero pesato per l’intero loro stipendio sul bilancio dell’ateneo. Anche una volta introdotti i punti organico, questa potentissima ragione economica ha continuato a operare. In un progetto del ministro Berlinguer si prevedeva che l’associato potesse partecipare al concorso da ordinario solo in una sede diversa dalla sua, così da favorire la circolazione dei docenti tra un ateneo e l’altro. Ma non a caso questa norma fu eliminata dalla commissione Cultura del Senato. Fatto sta che oggi gran parte dei professori ordinari presta servizio nell’ateneo dove in precedenza quegli stessi professori sono stati prima ricercatori e poi associati (azzarderei l’ipotesi che ormai un numero consistente in quel medesimo ateneo si sia laureato e abbia poi fatto il dottorato).
Difficile sottovalutare la trasformazione radicale nella vita universitaria di questo prevalere del localismo, accentuato dal proliferare del numero degli atenei, sotto la spinta delle pressioni locali: siamo passati dalle 42 università del 1971 alle 97 di oggi, comprese le non statali e le telematiche. Si è trattato non di un esito imprevisto ma di un risultato voluto sotto varie e convergenti pressioni accademiche, politiche, sindacali. Già prima della riforma Berlinguer, nel 1996, Raffaele Romanelli indicava le conseguenze nefaste del localismo che stava prendendo forma:
«La storia dell’università italiana è fatta di giovani studiosi formatisi in uno dei centri del sistema e che poi un concorso pubblico ha costretto a insegnare per qualche tempo nelle università minori della provincia, dove hanno portato una cultura diversa e nuovi orientamenti, in alcuni casi avviando scuole di ricerca che hanno lasciato il segno, e di altri provenienti dalla periferia che, sempre sospinti dal sistema nazionale di concorso, hanno trovato nelle maggiori città universitarie il terreno più adatto per alimentare un grandissimo talento».
Poiché nel sistema universitario italiano «non c’è una Parigi, una Oxford e una Cambridge a far da volano al sistema», proseguiva, è vitale «che le istituzioni pubbliche forzino in direzione nazionale unitaria la vocazione inguaribilmente provinciale della periferia». Ma ormai nelle nostre carriere universitarie il vitale scambio tra centro e periferia appare in larga misura interrotto.
Apparentemente con la legge Gelmini (240/10) si è tornati al sistema (ancora oggi in vigore) di una carriera regolata a livello nazionale da un’abilitazione (Asn) alle funzioni di professore di I o II fascia, affiancata da una «valutazione comparativa» a livello di ateneo riservata agli abilitati. Il meccanismo si presentava come molto rigoroso, con questo doppio filtro, a livello nazionale e locale, ma non lo era affatto e l’Asn ha confermato la deriva localistica come caratteristica di fondo del nostro sistema universitario. Il concorso a livello del singolo ateneo, infatti, viene comunque espletato da una commissione composta secondo i desideri del Dipartimento che bandisce il posto. Così, anche per le già citate ragioni economiche che quasi impongono la scelta del candidato locale, è per solito quest’ultimo a risultare vincitore.
Con la legge Gelmini si diventa commissari soltanto in base a due fattori: certi requisiti, di fatto meramente quantitativi; e poi la sorte
Peraltro le conseguenze negative della legge Gelmini non si arrestano a questo aspetto. Con l’istituzione di un primo livello di selezione, rappresentato dall’Asn, si è verificato anche un peggioramento nella determinazione delle carriere universitarie legato sia al meccanismo di formazione delle commissioni sia ai criteri che esse devono seguire nel valutare le candidature a professori di I o II fascia. La commissione, composta da cinque professori ordinari, si forma attraverso un sistema che miscela autocandidatura degli aspiranti commissari e sorteggio. Le nuove regole privano così il processo di selezione della docenza universitaria di ogni carattere di cooptazione, presente invece in quei meccanismi che prevedano l’elezione dei commissari e dunque il coinvolgimento della comunità dei colleghi che nel nuovo sistema non svolge invece alcun ruolo. Con la legge Gelmini si diventa commissari soltanto in base a due fattori: certi requisiti, di fatto meramente quantitativi, fissati dall’Anvur; e poi la sorte, che decide dell’estrazione o meno di un aspirante commissario.
Inoltre l’abilitazione, come tutti i processi di selezione universitaria, ha avuto come protagonista l’Anvur nel fissare regole di valutazione dei candidati particolarmente negative nel campo delle discipline umanistiche e sociali. Attraverso precisi criteri, parametri, valori soglia – a volte risibili – si intendeva sottrarre il più possibile la selezione alla soggettività/discrezionalità dei professori-commissari. In questo modo, attraverso criteri cosiddetti oggettivi, si è andato affermando un nuovo tipo di professore universitario che un po’ ha dovuto, ma un po’ ha anche voluto, per pigrizia o conformismo, adeguarsi a regole che di uno scritto valutano soprattutto se sia comparso su una rivista di classe A o se sia stato pubblicato in inglese. Sono criteri che, oltre a dire poco o nulla sulla qualità di un testo, svalutano sostanzialmente le pubblicazioni frutto di lunghe e impegnative ricerche, insomma i libri, che ai giovani bisogna ormai consigliare di non scrivere.
Quanto all’inglese assistiamo a un bizzarro rovesciamento. In passato i libri italiani tradotti erano pochi e in genere comparivano all’estero alcuni anni dopo l’edizione italiana. Il Mussolini di Renzo De Felice, per dire di un’opera essenziale per la storiografia ma anche per la coscienza civile degli italiani, non è mai stato tradotto all’estero. Mi è capitato di obiettare a un collega che con i criteri e le regole attuali lo storico appena citato non avrebbe fatto carriera. Mi ha risposto che avevo ragione, ma che i tempi sono cambiati.
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