Usciva nel 1873, giusto centocinquanta anni fa, firmato da Graziadio Isaia Ascoli, il Proemio (oggi si chiamerebbe introduzione o forse manifesto) che apre il numero inaugurale della rivista «Archivio glottologico italiano». Quelle poche pagine sono tra i primi e tra i pochi interventi da parte di un linguista professionista (non dunque di un poeta, di un romanziere o di un erudito) nel plurisecolare dibattito culturale che va sotto il nome di questione della lingua. Ma sono anche un saggio fra i più penetranti e severi circa i nodi inestricabili dell’istruzione e della cultura degli italiani a pochi anni dall’Unità. È un testo, insomma, che aiuta a capire che cosa la cultura italiana aveva perso nel corso della storia moderna e che cosa, forse, non riuscì a recuperare del tutto neanche dopo la creazione dello Stato nazionale.

Nato a Gorizia – allora città dell’Impero d’Austria – nel 1829 in una famiglia della borghesia ebraica, Ascoli era dal 1860 un professore di nomina ministeriale presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano (l’antenata dell’università Statale). La titolatura originaria della sua cattedra, «Grammatica comparata e lingue orientali» era stata mutata per suo suggerimento in «Storia comparata delle lingue classiche e neolatine» e di fatto tra i primi insegnamenti di linguistica in senso moderno, scientifico, nell’Italia unita.

Autore di fondamentali studi che spaziano dalla semitistica al sanscrito, fino alla linguistica italiana, Ascoli si era andato orientando sempre più decisamente verso la linguistica romanza e all’inizio degli anni Settanta aveva fondato di fatto gli studi scientifici di dialettologia italiana, che proprio nella rivista da lui diretta, l’«Archivio glottologico» (ancor oggi esistente) trovarono un punto di riferimento.

Il Proemio ebbe una gestazione lunga e complessa. Come si è detto, è lo scritto introduttivo e programmatico di una nuova rivista. Ma è anche il punto di arrivo di una polemica iniziata almeno un decennio prima (come ha dimostrato Claudio Marazzini) con gli ambienti della cultura manzoniana, di stampo cattolico e di orientamento fiorentinista.

Il Proemio è lo scritto introduttivo e programmatico di una nuova rivista. Ma è anche il punto di arrivo di una polemica iniziata almeno un decennio prima con gli ambienti della cultura manzoniana

Esso è pure, almeno in superficie, la reazione (più che la semplice recensione) a un dizionario militante da poco pubblicato, il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Emilio Broglio (già ministro della Pubblica istruzione nel governo Menabrea) e Giovanni Battista Giorgini (un giurista toscano, genero di Manzoni). Il dizionario, toscaneggiante fin dal titolo (Novo, non nuovo), puntava ad accreditare il fiorentino cosiddetto vivo come modello per la scuola, la società, la cultura della nuova Italia.

Ascoli s’interroga sul problema della pretesa coincidenza tra il fiorentino contemporaneo e la lingua comune italiana, coincidenza propugnata da ampi settori della cultura letteraria di allora: è una identificazione che Ascoli respinge con argomenti ovvi per un linguista ferrato e aperti a una considerazione globale e scientificamente argomentata dello spazio linguistico italiano.

Per illustrare il suo ragionamento, Ascoli propone un confronto tra l’assetto linguistico italiano e quello francese, caratterizzato dall’incontrastata e plurisecolare centralità di Parigi e della sua corte, decisiva per l’elaborazione e l’imposizione del modello linguistico unitario del reame, e del tutto diverso dalla situazione italiana. La lingua di Parigi – centro politico, sociale e culturale insieme – coincideva naturalmente con il francese parlato, a sua volta assai vicino a quello scritto della letteratura. Ma lo stesso non poteva valere per Firenze.

Un ulteriore confronto avanzato da Ascoli si rivela più calzante e pertinente per spiegare la situazione italiana: quello con il mondo germanico, la cui originaria frammentazione politica e linguistica (simile, in partenza, a quella dell’Italia) era stata superata grazie alla Riforma protestante, in seno alla quale prese forma anche il modello di lingua comune dei tedeschi destinata ad affermarsi durante l’età moderna.

A quel movimento storico e culturale, l’area germanica ne aveva associato non casualmente un altro, che era mancato all’Italia proprio come a quest’ultima era mancata la Riforma. Si tratta della costruzione di un sistema scolastico e sociale capace di produrre una diffusione capillare e omogenea di cultura e alfabetizzazione, coinvolgendo anche i ceti meno elevati (senza peraltro nuocere ai dialetti locali tedeschi, di cui Ascoli stesso mostra di conoscere la complessa geografia e la perdurante vitalità, che non contraddice il vigore del tedesco come lingua comune e diffusa della cultura germanica).

Ben diversa la situazione dell’Italia, dove il contrasto tra vette di dottrina e di genialità da un lato, e depressione del livello culturale generale dall’altro hanno per secoli impedito uno sviluppo armonico di lingua e società paragonabile a quello di altri Paesi europei.

Nel complessivo scetticismo per il modello – sia linguistico, sia socio-culturale – francese e nell’evidente ammirazione per quello germanico pesano i condizionamenti del tempo (la guerra franco-prussiana si era conclusa da poco e i suoi esiti avevano profondamente influito sull’opinione pubblica europea, o almeno su quella più colta). Ma contano anche le vicende biografiche di Ascoli, nato nella Gorizia austriaca e formatosi a contatto con gli ambienti scientifici e accademici di una Mitteleuropa multiculturale e pluriconfessionale.

Il ruolo di potenziale centro di una nuova Italia linguistica è intravisto da Ascoli nella Roma da poco liberata, ma solo a condizione che il Paese superi la «scarsa densità della cultura» che lo caratterizza. Del resto, contrapporre Roma a Firenze significava all’epoca anche contrastare implicitamente uno dei moventi politici di fondo del fiorentinismo degli anni Sessanta: il tentativo cioè di accreditare la Firenze capitale – tale era stata dal 1866, per un quinquennio – come soluzione se non permanente, certo utile a rinviare lo scioglimento della questione romana, e quindi la fine dello Stato pontificio.

In contrasto con gli ideali di semplicità popolaresca propugnati dal manzonismo e da vecchie nostalgie romanticheggianti, Ascoli invoca per l’Italia alla ricerca di un italiano comune una lingua caratterizzata da complessità, precisione e gravità, e perciò utile al dibattito civile della nazione.

Ascoli invoca per l’Italia alla ricerca di un italiano comune una lingua caratterizzata da complessità, precisione e gravità, e perciò utile al dibattito civile della nazione

Tale è, fra l’altro, la lingua ch’egli stesso pratica, e che rende talora ardua la lettura di un testo come il Proemio, scritto in uno stile severo e poco affabile. In contrasto con l’impostazione culturale degli autori del Novo vocabolario, Ascoli indica nei dizionari il sedimento, e non la norma della lingua: il risultato, insomma, e non l’artificioso pilotaggio di un moto di progresso che deve nascere dall’avanzamento della società nel suo insieme. L’unificazione e l’omogeneizzazione linguistica del Paese devono dunque passare attraverso un consolidamento della cultura degli italiani, assicurato da una formazione moderna e positivisticamente solida.

Non ha alcun senso, secondo Ascoli, eleggere la Toscana o Firenze quale baricentro di una nazione che dovrebbe piuttosto trovare il proprio motore – anche linguistico – nelle regioni e nei ceti più culturalmente moderni e socialmente avanzati del Paese.

Le pagine finali del Proemio sono dedicate a un’appassionata difesa dei settori storico e filologico degli studi umanistici, in cui l’egemone tradizione retorico-letteraria è sopravanzata dall’esigenza di elaborare metodi e linguaggi rigorosi. Solo la formazione di un’ampia e operosa comunità scientifica può offrire in quest’ambito una soluzione concreta ai problemi e ai ritardi della nazione da poco unificata.

In questo ideale programma d’istruzione avanzata un ruolo particolare deve spettare, per Ascoli, ai filologi (nel senso ottocentesco, che comprende i linguisti) e agli storici, cioè ai cultori di quelle scienze umane che nel clima culturale in cui Ascoli opera appaiono le uniche capaci di annodare la cultura umanistica con quella scientifica. Anche in quest’ambito, il modello tedesco ha un ruolo essenziale, ch’egli difende dalle speculazioni politiche di una parte della cultura risorgimentale, più favorevole alla Francia napoleonica che alla Germania bismarckiana.

La fortuna del Proemio ascoliano è stata notevolissima non solo tra i linguisti, ma tra gli stessi studiosi della storia culturale del suo tempo. Sostanziale è ad esempio l’avallo di rappresentanti della cultura laica come Carlo Dionisotti, che definì questo scritto «uno dei capolavori in senso assoluto della letteratura italiana», o Sebastiano Timpanaro. Minor diffusione e quindi minore eco esso ha avuto, almeno in apparenza, nel largo pubblico delle scuole e in molti ambienti colti che hanno durato fatica a penetrarne lo stile impervio, e fors’anche ad accettarne l’impegnativo programma culturale. A centocinquant’anni dalla sua uscita, il Proemio, come altre pagine luminose e ardue della cultura italiana, continua ad essere ammirato da pochi e ignorato dai più.

 

[Lo scritto anticipa, in forma rielaborata e privata della bibliografia, l’introduzione a una edizione del Proemio di Ascoli in preparazione per il volume La questione della lingua da Dante alla Corte Costituzionale, diretto e coordinato da Claudio Marazzini per la collana «Classici della letteratura europea» dell'editore Bompiani].