E il primo appuntamento elettorale di quest’Europa travagliata è andato. Il temutissimo Geert Wilders, dopo avere inondato con il suo ciuffo biondo giornali e siti di tutto il continente, non è riuscito nell’impresa di vincere le elezioni politiche nel suo Paese.
Tanto è bastato perché questa mattina partisse l’entusiasmo per la «diga» olandese, che avrebbe salvato l’Europa dal rischio populismo. Si tratta, certo, di una buona notizia. Ma forse è un po’ presto per salutare la ripartenza dell’Europa libera e democratica che sconfigge l’Europa oscurantista.
Il Pvv di Wilders ha pur sempre ottenuto il secondo posto con il 13,1% e 20 seggi (4 in più rispetto al 2012), a fronte dei 33 seggi ottenuti dal Vvd, il partito liberale di destra del premier uscente Mark Rutte sui 150 in palio alla Camera Bassa degli Stati Generali d’Olanda, l’unica a suffragio universale (il Senato è composto dai rappresentanti delle assemblee provinciali). A questi dati vanno aggiunti la sconfitta pesantissima della socialdemocrazia olandese del Pvdam che passa dai 29 seggi del Parlamento uscente ai 9 del prossimo, e il risultato notevole dei verdi del GroenLinks guidati dal giovane Jesse Klaver, subito ribattezzato il Trudeau europeo, passati dal 2,3% del 2012 a un 9% che gli garantirà 14 seggi rispetto ai 4 del Parlamento attuale, oltre al ruolo di principale partito della sinistra olandese. Da segnalare, infine, il buon risultato del partito antirazzista Denk, una lista pro-immigrati fatta nascere da due deputati laburisti di origine turca, che ottiene tre seggi.
Molte buone notizie, dunque, si possono ricavare dai risultati di questo voto, così temuto da tutti.
Tuttavia, alcuni aspetti delle ragioni che hanno portato Rutte a recuperare consensi proprio in coda di campagna elettorale vanno considerati con attenzione. Innanzitutto l’«assist» che gli è stato offerto da Erdogan con la vicenda che ha portato a una profonda crisi diplomatica tra Turchia e Olanda. Il premier uscente ha avuto così l’occasione per presentarsi come paladino del nazionalismo olandese, rubando consensi all’estrema destra. In secondo luogo, nell’esultare per questo risultato, andrebbe tenuto conto che, con l’eccezione virtuosa dei Verdi, un partito con una dirigenza molto giovane che sembra poter incarnare appieno la lunga tradizione liberale di un Paese tradizionalmente aperto come l’Olanda (le citazioni di Spinoza in questi giorni si sono sprecate), tutte le formazioni politiche che hanno «tenuto» si sono avvalse di un orientamento che difficilmente può essere considerato progressista. In altri termini, la democrazia olandese, per sopravvivere alle pulsioni nazionalistiche e populiste, ha dovuto scendere a patti sul loro stesso terreno.
L’Europa che il 25 marzo prossimo celebrerà i sessant’anni dei Trattati di Roma rimane in una situazione di grandissima incertezza, in bilico tra la sua tradizione di grande area democratica e liberale e la necessità di accogliere e in molti casi cavalcare le pulsioni populiste che la percorrono. Incapace di risolvere i dilemmi cui l’hanno posta i fenomeni migratori e di cominciare a sciogliere i nodi che ne derivano e che rendono sempre più evidenti le contraddizioni tra il piano nazionale e quello comunitario.
Dopo la piccola ma significativa buona notizia che arrivò dall’Austria il 4 dicembre scorso – curiosamente la stessa domenica che vide la sconfitta del governo italiano guidato da Matteo Renzi sul referendum costituzionale – quando Alexander van Der Bellen venne eletto presidente, la tappa olandese era la prima di un percorso tutt’altro che semplice e scontato per la nostra Europa.
Le speranze di costruire altre «dighe» al populismo montante sembrano essere a questo punto affidate a Emmanuel Macron in Francia, che i sondaggi danno in continua crescita, e alla sfida tra Angela Merkel e il redivivo Martin Schulz in Germania, dove il 24 settembre si terranno le elezioni per il rinnovo del Bundestag, il Parlamento federale tedesco. Due elezioni che saranno in realtà cruciali per l’intero continente.
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