Il viaggio di papa Francesco a Cipro e in Grecia si è concluso ieri senza che ci siano state particolari attenzioni da parte dei più importanti quotidiani nazionali e internazionali (salvo pochi casi). Non è la prima volta, il che giustifica e forse richiede una riflessione più strutturata. Ciò non dipende tanto, mi pare, dalla «laicità» dei mezzi di informazione; né la ridotta copertura dell’evento da parte dei media non cattolici può dipendere da una scarsa rilevanza della figura del pontefice, per di più attivo e netto nelle sue prese di posizione come Francesco. Le ragioni di questo disinteresse sembrano toccare il carattere palesemente sociale di tali viaggi. Con Bergoglio, non c’è stato viaggio che non abbia avuto a che fare con un quadro sociale complesso, da sanare, perfino geograficamente (come nel caso di Cipro, divisa in due a causa dell’occupazione turca). E qui non solo impressiona la quantità innumerevole di forme sotto cui si dispiega la «terza guerra mondiale a pezzi», di cui il papa parla dal 2014, ma anche e più profondamente il ruolo che Bergoglio continua a riservare al papato, se non a quello del futuro, certamente a quello di oggi.

Almeno in prima battuta, il disinteresse dei media non è di tipo partitico. È piuttosto di natura culturale (e per questo non meno preoccupante), in quanto riflette l’imbarazzante difficoltà a imbastire, soprattutto nel nostro Paese, un discorso sulle disuguaglianze sociali che si possa realmente definire pubblico. Sempre più spesso, solo per fare un esempio, registriamo il disagio, se non addirittura l’astio, nei confronti di iniziative volte al riequilibrio delle condizioni economiche (si pensi all’introduzione del salario minimo). Ma quello delle disuguaglianze è un tema trasversale, poiché è difficile che esse abbiano una dimensione sola, mentre è più facile che siano un coagulo di disparità diverse. È una complessità che fa sì che il discorso sulle disuguaglianze non riceva mai la stessa accoglienza, per quanto rimanga da capire in che modo possa sussistere quella narrazione neoliberale (neanche troppo implicita) per cui sarebbe possibile coniugare le disuguaglianze e l’impianto democratico di una comunità.

Con Bergoglio, non c’è stato viaggio che non abbia avuto a che fare con un quadro sociale complesso. Le ragioni del disinteresse dei media nei confronti del viaggio del papa sembrano toccare questo carattere palesemente sociale

Eppure gli studi non mancano. In diversi affermano l’inseparabilità delle disuguaglianze sociali da quelle politiche, ma il tema sembra lontano dal raggiungimento di una padronanza pubblica, intellettuale e non solo. In questo contesto Francesco costituisce un controesempio evidente. Per avere un’idea, è stata dura seguire alcune trasmissioni di approfondimento francesi, in questi giorni, e reggere il contrasto, quasi in contemporanea, tra le immagini e le parole dei soggetti politici al centro dei dibattiti (in vista delle elezioni presidenziali del 2022) e le immagini e le parole del papa a Nicosia, Atene, o a Mytilene.

Così non sorprende che i due grandi pilastri del viaggio fossero i poveri e la democrazia. Per il papa, toccare due terre segnate dalla congiunzione di questi pilastri era il più importante dei segni. Come ha detto egli stesso, «alimentiamo la speranza con la forza dei gesti anziché sperare in gesti di forza». In un mondo che non disdegna figure forti, Bergoglio si fa prossimo di chi non lo è. Quella del papa è l’alternativa evangelica, l’alternativa delle beatitudini, che sono parole di riscatto e non di rassegnazione (lo scrittore franco-israeliano André Chouraqui preferiva tradurre l’elogio della beatitudine – beati! – con l’invito al cammino – en marche!).

Ma la centralità della povertà in Francesco non poteva non avere toni ecclesiologici. Ascoltare il discorso di Christian Tango Mukaya, uno dei rifugiati di Lesbo, che ringrazia la propria parrocchia sull’isola, è solo una delle testimonianze più visibili che non è una dottrina che Francesco intende rendere presente alle latitudini più trascurate del mondo, ma la Chiesa stessa, in una riproposizione radicale del famoso (e quanto mai frainteso) ammonimento che Gesù rivolge ai discepoli: «I poveri infatti li avete sempre con voi» (Mt 26,11; Mc 14,7; Gv 12,8).

Francesco appare la guida globalmente più capace di chiamare le cose per nome. I suoi appelli confermano il ruolo del papa, che vuol mettere in campo una Chiesa pubblica. E proprio nel silenzio generale, questa voce risuona più forte

Ciò perché è soprattutto la Chiesa, più che il contrario, a necessitare del prossimo. Ed è con questa certezza che il papa può parlare della democrazia e della sua crisi, in un discorso alto, pieno di riferimenti: da Aristotele a De Gasperi, dall’Iliade al Giuramento di Ippocrate. Francesco si pone così al cospetto dei grandi, chiamando in causa la politica e rimettendola alle sue responsabilità di fronte a un preoccupante «arretramento della democrazia», che diversamente dall’autoritarismo «richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza».

La soluzione resta politica. Francesco ha rimesso in gioco tutto se stesso per tentare di offrire il giusto spazio a quelle che sono (e non solamente dovrebbero essere) le tematiche politiche di questo tempo. L'appello a fermare l’attuale tremendo «naufragio di civiltà» è come se non bastasse l’esito di un ruolo, quello del papa, volto a mettere in campo, prima che una teologia dal volto pubblico, una Chiesa pubblica. Perché non è che «un’illusione pensare che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta». Anche per questo era doveroso ribadire che «non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso che qualcuno è costretto a sobbarcarsi». Visto da qui, Francesco appare la guida globalmente più capace di chiamare le cose per nome: gli auspici di pace, di unità, di superamento delle grandi disuguaglianze di oggi ne sono solo l’ennesima prova, accompagnata dalla convinzione non infondata che, nel silenzio generale, una voce sola risuona più forte.