Si è discusso, in queste settimane, di quanto sia difficile far tradurre i saggi italiani all’estero (La Porta, Luzzatto e Firpo sul “Sole 24 ore”) e della possibilità di tenere una parte dei corsi universitari in lingua inglese anche nelle facoltà umanistiche (Gregory e Segre sul “Corriere della Sera”). Le due questioni sono distinte ma la domanda che sta a monte è simile: in che modo comunicare, oggi, il sapere umanistico? Domanda a cui non è facile rispondere soprattutto perché il problema che sottende non è soltanto culturale ma anche economico-amministrativo; e forse più economico-amministrativo che culturale.
Quanto allo scrivere. Molto giustamente Massimo Firpo osserva che «a leggere tanti libri che escono da illustri University Press americane c’è da restare sconcertati nello sfogliare bibliografie solo in inglese, anche in studi che si occupano della storia di altri Paesi», e che «le fonti stesse sono sempre più citate solo in traduzione». È così. Ma il fatto è che la proliferazione della bibliografia in inglese (anche cattiva) non sembra arrestabile. Si può però tentare di migliorarla.
Nelle scienze dure e nelle scienze sociali il dibattito è già tutto in inglese: non si scrivono articoli di matematica in turco o in italiano. Anche nelle discipline come la storia, la letteratura, la storia dell’arte, il dibattito extra-accademico è soprattutto in inglese (è in inglese quello che conta a livello internazionale), perché corre soprattutto su riviste anglo-americane: il “Times Literary Supplement”, la “New York Review of Books” ecc. Quanto ai saggi accademici, è chiaro che potranno continuare ad essere scritti in italiano (e in francese, spagnolo, arabo...). Ma a me pare altrettanto chiaro che uno studioso di storia o di letteratura sempre più dovrà, in futuro, essere in grado di scrivere decentemente in inglese. Un tale studioso potrà, nelle sue comunicazioni, nei suoi articoli e nei suoi libri scritti in inglese, citare anche i grandi saggi italiani che i suoi colleghi anglo-americani mostrano di non conoscere: e sarà un servizio reso alla scienza. Kafka ha la formula giusta: «È inutile chiudersi in casa. Si è nella loro».
Che fare? Per quelli di noi che hanno più di trent’anni è troppo tardi. Per i nostri studenti no. Bisognerà metterli nelle condizioni di imparare o di migliorare il loro inglese anche scritto in ogni modo, e questo significa potenziare i corsi di lingua, aggiornare e tenere aperte il più possibile le mediateche, favorire i tandem con gli studenti stranieri; significa che all’interno delle facoltà umanistiche bisognerebbe avere – come hanno alcune università straniere – un writing center in italiano (no, «italiano scritto» non è la stessa cosa) e in inglese; e significa che i nostri studenti (Erasmus e simili) dovrebbero spendere un semestre o un anno accademico non all’Università di Ibiza ma in università che offrano, tra l’altro, dei buoni corsi di inglese scritto.
Quanto alle lezioni. È chiaro che non avrebbe senso fare lezioni di letteratura o storia o filologia, a studenti italiani, in inglese. L’università dei prossimi anni sarà ancora questo: buone lezioni di letteratura italiana tenute di fronte a studenti italiani in italiano. Ma non potrà essere solo questo. Chi vuole avere un’idea di come l’università sta evolvendo, alla velocità della luce (espressione da intendersi alla lettera), può dare un’occhiata ai corsi online della Khan Academy, o può riflettere sul corso online di Intelligenza artificiale della Stanford University, 160.000 studenti iscritti in ogni parte del mondo (ne parla Paul Seabright sul "Tls" del 7 marzo 2012). Questo non significa che l’università come luogo sia destinata a scomparire, almeno nel breve-medio periodo. Significa che per vivere decentemente dovrà dare ai suoi studenti delle buone ragioni per frequentarla e, soprattutto, dovrà essere capace di attrarre studenti stranieri. Dunque, prima di tutto: siti internet belli, chiari e plurilingui, servizi d’accoglienza, dormitori, palestre, mense attrezzate. E subito dopo: corsi dedicati, che saranno parte in italiano (se uno viene qui a studiare l’italiano) e parte in inglese (se uno vuole studiare l’italiano ma se la cava ancora male, o se vuole studiare la storia europea, o la paleografia).
Ora, l’Italia usa in maniera pessima, pessima i suoi atouts, che sono, com’è ovvio, moltissimi (biblioteche storiche, città d’arte, il papa, il sole, il mare, la pizza ecc): molti di più di quelli che ha, mettiamo, l’università di Turku, in Finlandia, la quale però – dovendo vendere bene il suo poco – offre un programma di master in Studi baltici, con opportunità di soggiorno in Estonia e Lituania, e soprattutto offre dei corsi semestrali per studenti Erasmus (Non-Degree studies), il tutto ovviamente in inglese.
È chiaro che le facoltà umanistiche italiane avrebbero una capacità di attrazione molto maggiore rispetto a quella di Turku. Ma se non sappiamo dove far dormire e mangiare gli studenti stranieri e se non diamo loro la possibilità di seguire dei corsi (magari dei corsi base) anche in inglese, il risultato sarà che uno studente Erasmus tedesco che voglia seguire un corso di paleografia latina finirà a fare un semestre a Turku anziché a Roma: con un po’ di danno per lui (Turku non vale Roma), con molto danno per noi (l’obiezione «Lo studente Erasmus tedesco che vuole seguire un corso di paleografia latina ci fa il santo piacere di impararsi prima l’italiano, che è il frutto più polposo dell’albero del latino» non è un’obiezione che abbia senso nell’anno 2012). Kafka ha la formula giusta: «Nella battaglia tra te e il mondo, stai dalla parte del mondo».
Riproduzione riservata