“Proud to be poor non è lo striscione dietro al quale molti marcerebbero”, scriveva la studiosa Ruth Lister. Eppure i meridionali hanno dimostrato di non vergognarsi di esserlo, di non “scegliere” di essere poveri per furbizia, per prendere il Reddito di cittadinanza. Famiglie con bambini e altre persone non autosufficienti, lavoratori che si spaccano la schiena nelle campagne e in edilizia, che stanno ore al computer o a servire ai tavoli per paghe da fame, senza dimora, immigrati che pure spesso non hanno potuto accedere al reddito di cittadinanza, hanno innalzato questo striscione. Proud to be poor. Hanno difeso il diritto a quella integrazione di reddito che si aggiunge ad altri spezzoni di reddito, grazie alla quale possono pagare l’affitto, curare i denti ai bambini e perché no, come suggeriva Rowntree a inizio del Novecento nel calcolare a quanto doveva ammontare il “minimo vitale”, a comprare dolciumi ai bambini e un vestito grazioso alla moglie.
Era già accaduto che i poveri si organizzassero in difesa di questo diritto con il movimento dei disoccupati organizzati negli anni Settanta, quando il proletariato precario napoletano cominciò a marciare, dietro ai caschi gialli degli operai dell’Italsider o insieme agli studenti, chiedendo con forza ‘o lavoro, quando ancora questa aspirazione nel Mezzogiorno poteva sembrare realistica ed era preferita, inutile a dirsi, a quella del sussidio. Come è andata lo sappiamo. Quella richiesta di rappresentanza dei non rappresentati non fu ascoltata e il movimento si frantumò in tante liste controllate da questo o quell’esponente politico (anche della sinistra) o peggio ancora dalla criminalità quella sì veramente organizzata, verrebbe da dire.
Pur non avendo alcun senso sul piano statistico stabilire una relazione causale tra numero di percettori del Reddito di cittadinanza (Rdc) e voti al M5S come oggi molti si affrettano a fare (perché è una correlazione spuria, perché bisogna al più guardare alla percentuale di votanti sul numero di abitanti, perché tra i percettori di Rdc ci sono anche i bambini che non votano…) è innegabile che Giuseppe Conte, credendoci o per fiuto politico, ha intercettato questa domanda di rappresentanza, al contrario del Pd e di altri partiti della sinistra. Perché mai un napoletano povero doveva votare un esponente dei Verdi, ad esempio, che si presentava senza un programma politico se non quello di andare a caccia di parcheggiatori abusivi e di giovani senza il casco da postare sul suo sito per compiacere qualche elettore del ceto medio? O un partito che ha commesso il suicidio elettorale di non intestarsi il merito di aver cercato di difendere e migliorare il Rdc chiamando la principale studiosa della povertà in Italia, nota anche a livello internazionale, a presiedere la commissione Orlando? (E sul rapporto del Pd con gli intellettuali e gli operatori del terzo settore chiamati solo a fare da stampella quando si è in difficoltà ci sarebbe da scrivere un altro articolo).
Tutti a dare addosso agli scrocconi. E nessuno a dire che le truffe ai danni dello Stato tramite il Rdc a ammontano a meno dell’1% del totale, che le principali vittime sono stati i poveri perché quelli beccati non sono appunto poveri e che i truffatori sottraggono importanti risorse all’assistenza
Tutti a dare addosso agli scrocconi. E nessuno a dire che le truffe ai danni dello Stato tramite il Rdc a ammontano a meno dell’1% del totale, che le principali vittime sono stati i poveri perché quelli beccati non sono appunto poveri e che i truffatori sottraggono importanti risorse all’assistenza oltre a creare un danno di immagine. Nessuno a ricordare che “assistenza” non è una parolaccia e che l’impegno dello Stato a garantire il minimo vitale a chi è sprovvisto dei mezzi per vivere è un diritto sancito dall’art. 38, e potrebbe essere il primo, almeno stando alle prime dichiarazioni di questi giorni, ad essere rimosso da Fratelli d’Italia, a proposito di difesa della Costituzione. Vi è stato da parte del centrosinistra, e in particolare del principale partito che aspirava a rappresentarlo, un atteggiamento di totale incomprensione, se non di disprezzo, nei confronti dei settori marginali della popolazione e una difficoltà nel riconoscere nei poveri una componente importante delle classi lavoratrici, con riferimento non solo ai livelli di reddito e precarietà delle entrate, ma alla loro nuova collocazione nei rapporti sociali di produzione. “Quelli li votano i poveri” si è sentito dire con spocchia in ambienti che si ritengono democratici e progressisti. E infatti, “quelli” hanno provato a prendere atto di questo cambiamento e di questa esigenza di rappresentanza.
Non è stato un voto di scambio per almeno due ragioni. Innanzitutto non è presente alcun elemento corruttivo trattandosi di un diritto sancito da una legge dello Stato (diritto presente in tutti i sistemi di Welfare del mondo e che alcuni Paesi stanno sperimentando in forme molto più avanzate della nostra, anche se a volte con un orientamento sciovinista). Inoltre, il voto di scambio riguarda il rapporto con un singolo individuo a cui si propone un favore in cambio del voto, non con una intera categoria di persone. Se la leggiamo così, allora si potrebbe dire che quando il Pci lo votavano a stragrande maggioranza gli operai anche quello era voto di scambio (capiamo che anche questo esempio, come quello dei disoccupati organizzati, appare anacronistico visto che oggi non accade più in quella stessa misura).
Questa tesi è frutto di una visione del Mezzogiorno, diffusa tra la classe dirigente, soprattutto al Centro Nord, come luogo degli “straccioni”, pronti a votare chi gli sa offrire prebende. Chi la sostiene o sa di mentire o non ha le competenze per leggere la realtà né il coraggio di farsi carico della sua complessità oppure, semplicemente – e qui sta il peggio –, vuole continuare a fare gli interessi dei garantiti. Perché pensa che in quell’area si possa costruire consenso. Il M5S ha saputo più di altri toccare questioni che hanno a che fare con la vita delle persone: non dimentichiamoci che in Italia ci sono 5 milioni e 600mila persone in povertà assoluta (1 milione e mezzo sono minorenni) e che negli ultimi due anni i 50 italiani più ricchi hanno aumentato di decine di miliardi la loro ricchezza, mentre negli stessi due anni un milione di italiani in più sono diventati poveri. Dunque dipende da che prospettiva guardi il mondo, con chi parli. È ridicolo accusare il M5Se di fare quello che faceva la sinistra: trovare gli argomenti per parlare a quel popolo. Così come non ce la sentiamo di dare del fascista a uno che vota Meloni e abita a Tor Bella Monaca o di dire che sbaglia a votare la Meloni anziché la sinistra.
In Italia ci sono 5,6 milioni di persone in povertà assoluta (1,5 milioni minorenni). Negli ultimi due anni i 50 italiani più ricchi hanno aumentato di decine di miliardi la loro ricchezza: nel frattempo, un milione di italiani in più sono diventati poveri
Chi nella sinistra è andato a parlare con una famiglia che percepisce il Rdc? Con i ragazzini che abbandonano la scuola e contribuiscono al puzzle del reddito famigliare con 200-300 euro al mese in nero, portando in giro caffè? Con il proprietario di quel bar che invece di assumere un ragazzo, gli dà 300 euro in nero? Non riconoscere i poveri nelle loro difficoltà del vivere quotidiano e non sostenerli nel loro sforzo di uscirsene dalla condizione di disagio per tutto il tempo di cui hanno bisogno – oltre all’astensionismo, che nel Mezzogiorno ha toccato punte del 50% – può produrre il rancore di chi pensa “non mi guardate neanche più”.
Dinanzi a questa sovrapposizione di esclusione e non voto, dobbiamo ritrovare linguaggi che non possono essere quelli del giudizio e della colpevolizzazione, se no non ne usciamo. Da una parte c’è una politica che rinuncia a farsi carico della complessità, ma c’è anche una politica che la complessità la usa in modo strumentale: già anni fa Marco Revelli diceva di partiti che “quotano la paura sul mercato del consenso elettorale”. L’area rancorosa se ci va bene sta a casa e non vota, ma il rischio è che vada dietro al primo che propone nemici opportuni su cui scaricare la rabbia. Per esempio contro le élite che gestiscono la politica per proteggere i benestanti ricchi e garantiti o gli immigrati che due giorni di campagna elettorale sono bastati a spogliare della loro umanità – come erano i profughi ucraini – per farli tornare non umani che possono essere lasciati morire di sete in mezzo al mare. Occorre un corpo intermedio che si occupi di queste contraddizioni e di tali derive di conflitto tra ultimi, penultimi e vulnerabili, per altro tipici delle società quando si allargano le dimensioni della povertà e della disuguaglianza.
Tuttavia, di fronte a tale assenza di politica, o quanto meno davanti a partiti e decisori, anche a sinistra, che appaiono distanti e indietro rispetto alla società civile, alle sue forme di impegno civico e alle sue pratiche concrete, sul fronte della rappresentanza pensiamo che oggi non vi sono mandati esclusivi da dare ad altri. Anche i movimenti, l’associazionismo, il privato sociale, le comunità molteplici che in tante parti del Paese producono idee, forme di convivenza, modelli di sviluppo centrati sulle persone e sulla tutela del territorio e dell’ambiente, hanno una grande responsabilità: quella della loro frammentazione e quindi dell’incapacità di pesare sulle politiche e sulle scelte. È un universo che deve fare un salto di qualità, a partire da un investimento coraggioso per incontrarsi e stringere alleanze, di senso e prospettiva, per trasformare le tante e bellissime esperienze che già si praticano in qualcosa di ordinario, di denso e strutturato e per questo capace di determinare cambiamenti nel Paese.
In altre parole, in questo nuovo quadro, con una destra che non prende complessivamente più voti del 1994 ma che ora è a forte trazione sovranista e radicale, con un’opposizione fatta di partiti incapaci di fare fronte comune, la sfida è quella di accompagnare i processi dove si esercita in modo diretto la propria rappresentanza. Ciò significa stare in quel fermento civile e sociale sui temi della giustizia ambientale e sociale provando a determinare incontri, intrecci, meticciati tra culture e temi. Lavorando, come propone il Forum Disuguaglianze Diversità, a creare alleanze di scopo su temi concreti: con proposte competenti, radicali, connesse con il quotidiano e la vita delle persone.
Ci pare questa l’unica strada per ricostruire una sinistra e un campo democratico in grado di non abbandonare chi fa più fatica e per accompagnare quel processo di costruzione del partito che non c’è, centrato su un’idea forte di intreccio di giustizia sociale e ambientale e di rispetto dei diritti sui luoghi di lavoro. Ci pare questa l’unica strada. Una democrazia in cui il voto diventa tema da benestanti è una democrazia che non sta affatto bene.
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