C’è un nemico del progresso tra noi. Si aggira per l’Italia nascondendosi dietro la Grande Crisi. È l’alibi della mancanza di risorse, che come d’incanto viene tirato fuori ogni qualvolta un progetto di riforma, o almeno di cambiamento, sbuca nel deserto delle idee che contraddistingue la cultura politica italiana. A fargli da compari, sul palcoscenico di un Paese impoverito e allo stremo delle forze, fanno capolino di volta in volta l’inefficienza del sistema, l’assenza di meritocrazia, l’ingordigia delle corporazioni. Caratteri purtroppo reali, che tenendosi bordone l’un l’altro hanno sinora impedito la messa in pratica di qualsivoglia progetto di lungo periodo di crescita e di sviluppo. Se si aggiungono la conclamata incapacità della classe politica italiana di rinnovarsi e i danni derivati dalla cultura di potere che ha segnato la gran parte del periodo successivo a Tangentopoli, la scena è completa.

Nonostante la dimostrata centralità, nel bene e nel male, del sistema formativo di un Paese per il suo benessere, l’alibi della crisi si è applicato a più riprese anche alla scuola. Evidente in teoria, ma assai poco nella pratica italiana, l’assunto lo hanno compreso bene i Paesi europei che hanno saputo valorizzare, con politiche e investimenti adeguati, il loro sistema di istruzione, facendosi trovare preparati ad affrontare, grazie anche a una buona capacità di sviluppo scientifico e tecnologico, le fasi di normalizzazione e declino che hanno segnato il panorama mondiale sin dagli anni Settanta. Anni cruciali, trascorsi a riformulare l’idea stessa di scuola per tutti, adeguandola ai nuovi bisogni e alle trasformazioni rapide e violente che di lì a poco la tanto conclamata globalizzazione avrebbe imposto. Mentre una parte rilevante e piuttosto trasversale delle élite politiche italiane, ma anche culturali ed economiche, preferiva accontentarsi dei risultati raggiunti (“i migliori asili d’Europa, un’ottima scuola elementare, centri di studio di assoluta eccellenza”, e via di questo passo), chiudendosi di fatto in se stessa, ignorando la realtà e soprattutto ignorandone gli effetti. Il progressivo deterioramento del nostro sistema scolastico e universitario e l’irrisolta questione dell’ampliamento del bacino di diplomati e laureati a fronte di un calo della qualità dell’istruzione, hanno poi impedito di approfittare dei momenti economicamente favorevoli per investimenti mirati, allo scopo di aggiornare il modello di partenza. Quel modello – quasi commovente se visto oggi – che alla scuola affidava la più importante opportunità di crescita sociale ed economica per l’individuo. Non hanno mai convinto le tesi secondo cui il deterioramento della qualità dell’istruzione in Italia prende le mosse dalla riforma della scuola media del 1962. Per non dire delle responsabilità di cui, ancora oggi e anzi oggi più che mai, alcuni critici vogliono caricare il Sessantotto. Da quei fatti sono trascorsi ormai quasi quarantacinque anni; e spiegare tutto con i danni provocati dal sei politico appare come minimo puerile.

La questione centrale resta l’incapacità della scuola, oggi, di modificare le gerarchie sociali, di donare nuove motivazioni allo studio personale, per non dire delle ragioni di formazione e crescita che dovrebbero stimolare il lavoro degli insegnanti. E il merito, se lo si vuol cercare, a seguire. Le polemiche che accompagnano l’avvio di questo nuovo anno scolastico non sembrano molto diverse da quelle degli anni scorsi, seppure, e comprensibilmente, in molti casi i problemi reali si siano ulteriormente aggravati. Travolto dall’emergenza economico-finanziaria e da un contesto internazionale ed europeo tutt’altro che rassicurante, il governo guidato da Mario Monti non si è sinora segnalato per una particolare, né anche solo sufficiente, attenzione ai gravi e perduranti problemi della scuola e di tutto il sistema formativo. Ritrovare la progettualità che essi meritano nei programmi delle diverse parti politiche in vista della prossima legislatura sarebbe un ottimo viatico per ridare un po’ di speranza nelle capacità dei politici di professione. Possibilmente senza tirare in ballo la crisi.