La grande fuga dalle città si è materializzata nel corso del 2020 in forme incerte, provvisorie, selettive. I quartieri ricchi di New York e di Milano si sono svuotati, con i residenti trasferiti nelle seconde case nel verde. I lavoratori in remoto sono rimasti a casa, spesso nell’hinterland o nelle città di residenza, prossime alla metropoli. La mobilità si è ridotta nelle città e tra le città, ma soprattutto la business community viaggiante sui treni ad alta velocità si è dissolta. Il trasporto aereo è crollato. Interi settori dell’economia sono stati congelati e come nel caso del turismo, della cultura e del divertimento, forse non torneranno più come prima, ponendo seri interrogativi all’economia creativa delle città che vive di contatti e di interazioni dirette e all’ampia sfera del consumo culturale di massa. Le imprese di punta si sono arrese, e poi velocemente riconvertite ai nuovi mercati della prossimità (AirBnB ha spostato la sua offerta verso le residenze suburbane), quelle del digitale e del delivery hanno moltiplicato addetti e utili (come Amazon, che ha aumentato gli addetti da 800.000 a 1.200.000 in pochi mesi). Il mondo urbano si è fermato, poi è ripartito molto lentamente e senza una precisa direzione.

Dove andranno a vivere le classi creative, gli analisti, i software developer, i ricercatori, i lavoratori intellettuali che sono il fulcro dell’economia dei Paesi avanzati? A Milano, Torino e Bologna le classi creative e le figure funzionali alle classi creative superano il 40% della popolazione residente. Si approfondirà la tendenza di una simile popolazione urbana a vivere online nei sobborghi o in zone remote, una specie di «villaggio globale» di McLuhan che ritorna di attualità? Nel 2021 il 100% del valore finanziario dell’economia degli Stati Uniti d’America sarà fatto di brevetti, algoritmi, software e proprietà intellettuale. Dove vivranno questi soggetti protagonisti del capitalismo immateriale?

Uno schema interpretativo della grande crisi pandemica in corso dovrebbe rispondere a queste domande. Un esempio è l’approccio, schematico seppur sofisticato, di geografi e urbanisti. Per chi come loro pensa la società come un campo di gioco di forze di attrazione e di agglomerazione, la pandemia è una delle tante evenienze cui le città ancora una volta sopravvivranno: e saranno come sempre le città globali – New York, Londra, Los Angeles, S. Francisco, Toronto a Occidente; Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Singapore a Oriente – a guidare la rincorsa. 

Dove vivranno questi soggetti protagonisti del capitalismo immateriale?

Queste interpretazioni ignorano il polo microsociale del comportamento umano, quello privilegiato dalla psicologia e dalla sociologia interazionista. Esse riguardano i comportamenti psichici soggettivi e la vita nervosa degli individui, quella che Simmel studiò per la metropoli di inizio Novecento. Il «distacco» del tipo blasé, il suo riserbo nei confronti della folla metropolitana assumono oggi un valore profetico, una tragica attualità. L’individuo della metropoli è oggi schiacciato dal sapere oggettivo incorporato nelle grandi strutture e infrastrutture che gli si rivolgono contro: le vetture claustrofobiche della metropolitana e gli shopping mall pieni di folla diventano la principale fonte di rischio.

Le scienze esatte della fisica, così come l’epidemiologia medica e la ricerca clinica, misurano curve e andamenti dell’epidemia in ciascuna città e regione, ma non colgono gli aspetti interpretativi, comportamentali, sociali che queste grandezze esprimono. Sarebbe necessario un modello circolare che sappia unire fattori economici-oggettivi ed extraeconomici-soggettivi.

Fattori oggettivi e soggettivi li ritroviamo uniti nella società del rischio globale. La moltiplicazione dei rischi, la Risikogesellschaft annunciata da Ulrich Beck oltre trent’anni fa, si è materializzata con un crescendo: nei catastrofici cambiamenti climatici planetari, nel rischio finanziario che coinvolge tutti, nella caduta in povertà di ampi strati di ceti medi e bassi, infine nella prima pandemia per sua natura globale. La radice di questi rischi è comune. È il capitalismo nella sua «fase estrema»: quella attuale, in cui i fenomeni globali rendono impossibile circoscrivere le fonti del rischio, come invece era possibile nelle società nazionali e locali del passato.

Questa nuova configurazione pone al centro la dimensione globale assunta dal rischio e la sua attuale «incalcolabilità». Siamo lontanissimi da quando il rischio era calcolabile da un agente economico, da un governo, da una famiglia. La finanziarizzazione globale e l’economia delle imprese globali – le due entità che hanno sostituito la sovranità degli Stati – hanno contribuito a globalizzare il rischio. Il debito che esplode in un punto qualunque del sistema si propaga a tutto il mondo, esattamente come avviene con la pandemia e con la crisi ecologica. Siamo sull’orlo di una completa trasformazione dell’economia: il cambiamento climatico obbliga gli investitori a riconsiderare le fondamenta stesse della finanza moderna. Ciò significa che investire oggi in un’impresa o in un Paese comporta un rischio incalcolabile: non sappiamo cosa avverrà a causa del cambiamento climatico in quell’economia nazionale, quell’impresa, quella città. Saranno state inondate o distrutte dalla siccità, saranno state colpite da mutamenti irreversibili? 

Gli abitanti delle città reagiranno al rischio globale in modi certo differenziati, ma tenderanno a isolarsi? A creare ancora di più comunità recintate e protette?

La sregolazione delle nostre società ha esasperato un aspetto, quello della responsabilità individuale nei confronti del rischio, dell'esigenza di sicurezza. Nella pandemia si è richiesto alle persone un comportamento attento e responsabile, senza fornire loro un quadro affidabile e organico di risposte da parte delle istituzioni (sanitarie, scolastiche, dei trasporti ecc.). Si tratta di un aspetto essenziale in cui la responsabilità civica individuale si connette a quella istituzionale collettiva. Due dimensioni, individuale e collettiva, che sono state scisse e allontanate l’una dall’altra, in primo luogo, dall' attuale cultura del capitalismo, interessata a manipolare il consumatore individuale (come si vede nel campo dei consumi digitali) rendendolo estraneo e ostile a ogni soluzione collettiva alternativa al mercato (ciascuno si risolve i problemi affidandosi agli algoritmi delle piattaforme, non certo alle iniziative collettive). 

Ma la distanziazione e la rarefazione delle interazioni sociali ha aggravato il senso di isolamento; ci si è affidati alle piattaforme (shopping online, smart working) più per necessità che per scelta. Una possibile creazione di reti su base locale, civica e translocale, potrebbe rappresentare una auspicabile risposta istituzionale (di quartiere, di città, di sistemi locali) rispetto alla privatizzazione digitale imposta dal modello dominante.

Questo ci riporta al tema della città come luogo di elezione dei fenomeni pandemici. La densità sociale urbana non è una novità, è sempre esistita a partire dall’antichità. Ha accompagnato le epidemie del passato, accompagna la pandemia del presente. Wuhan, Milano, New York ecc. sono metropoli globali a elevata interazione con il resto del mondo, per la presenza di imprese globali e di flussi densi di funzioni assemblate e di merci globalizzate. Il resto lo fanno la densità morale durkheimiana che unisce le persone in un tutto sociale, e l’intensità delle relazioni e degli scambi tra infinite cerchie sociali cui Simmel attribuisce la differenziazione sociale. Si sta insieme tra simili in cerchie, club e ambienti diversissimi, e l’individuo passa dall’uno all’altro a seconda della «maschera sociale» che assume di volta in volta. Una prefigurazione su vasta scala della società pandemica.

Prime ricerche sull’intensità della pandemia nelle città mondiali hanno mostrato che i distretti e i quartieri più colpiti sono quelli a maggiore densità, e quelli in cui la povertà e il disagio sociale impediscono il distanziamento. Inoltre quartieri legati alle funzioni della mobilità, come quelli in prossimità degli aeroporti internazionali e per questo abitati dai lavoratori dei trasporti e dei servizi aeroportuali, sono risultati i più colpiti.

Ammettiamo pure che la densità da sola non spieghi tutto, che la pandemia sfugga a questa categorizzazione. Ma altri aspetti di «ecologia umana» entrano in gioco: come il verde per abitante, i servizi di prossimità, la mobilità urbana ed extraurbana.

Possiamo immaginare una risposta nel decentramento urbanistico, una dissoluzione della città in comunità locali ecologiche, fornite di energie rinnovabili e basata su scambi remoti? La visione di Bruno Taut, il grande architetto e urbanista che nel primo Novecento fece l’edilizia sociale di Berlino con le Siedlungen semicircolari nel verde, in un testo profetico, La dissoluzione delle città (1920) immaginò comunità ecologiche decentralizzate, distanti e solo debolmente connesse, con uso di energie naturali rinnovabili. Una regione di giardinieri del vetro, case ecologiche con serbatoi d’acqua e irradiatori solari mobili che realizzano la Glas Architektur. Anche Walter Gropius nella nuova architettura (1935) immaginava accanto alle zone centrali popolose una struttura suburbana a bassa densità. E Frank Lloyd Wright (come Taut influenzato dal Giappone) immaginava colonie urbane, prairie houses e le textile block houses, case leggere fatte come un tessuto orientale, e in Broadacre City (1932) una città fatta di lotti per una civiltà individuale e comunitaria, un nuovo concetto spaziale.

Tutto ciò è stato travolto dall’urbanizzazione selvaggia e dal consumo di suolo e di risorse naturali nella nostra epoca del «capitalismo estremo». Oggi un ripensamento si impone, sui modi di abitare, lavorare e pensare la città. Un discorso nato quasi all’improvviso, il lavoro da remoto (si passerà dall’attuale 3-4% al 30-40% degli addetti a lavori smart non manuali nelle grandi città, in certi casi come Londra i lavori smart superano il 50%), potrà essere l’occasione di riflessione e sperimentazione. Ma occorrerà guardare alle diseguaglianze sociali tra lavoratori manuali (i più esposti alla pandemia: a Singapore metà dei lavoratori migranti sono stati colpiti dal virus) e non manuali, tra inattivi e attivi, di genere ecc. e ripensare il lavoro in senso più generale. Un futuro urbano diverso si impone, anche per fronteggiare il cambiamento climatico che tra pochi decenni trasformerà Milano in una Karachi. Ma nelle città dei Sud del mondo dove prosegue l’urbanizzazione massiccia e dove il virus si è presentato in forme differenziate non è chiaro come si potrà rispondere alla sfida delle migrazioni, dei residenti in circolazione, di una popolazione sempre meno definita e rappresentata, senza impegni di lungo termine, che vive negli interstizi dell’informale e nella continua rinegoziazione della vita. L’orizzonte si allunga al 2050: abbiamo trent’anni per rispondere alle sfide da noi stessi provocate, mediante un immane sforzo ricostruttivo – fisico e morale – delle città.