Se si riassumesse la situazione britannica in uno slogan, si potrebbe scrivere: «C’era una volta il sistema Westminster». Quel sistema fatto di governi stabili, di primi ministri forti e autorevoli e di due grandi partiti che si alternano al governo. La drammatica vicenda della Brexit, innestandosi su trasformazioni nella società e nelle istituzioni britanniche di più lungo periodo, ha minato le fondamenta di quel «modello Westminster» guardato spesso con ammirazione (o invidia) ad altre latitudini.
Ben inteso, il 23 maggio si è votato «soltanto» per i 73 seggi britannici al Parlamento europeo, in elezioni classicamente descritte come «di second’ordine», per di più in un Paese che le ha notoriamente snobbate e che, questa volta, non avrebbero neppure dovuto esserci, se l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea fosse avvenuta – come da calendario – il 29 marzo 2019.
Il contesto di queste elezioni non era, però, quello ordinario. Senza neppure aspettare la proclamazione dei risultati, il primo ministro Theresa May ha annunciato le sue dimissioni – sebbene «posticipate» al 7 giugno – lanciando la corsa per un nuovo (o magari ancora una nuova) leader del Partito conservatore, e quindi premier. Chiunque ricopra la carica, avrà avuto in eredità un accordo di uscita dall’Ue inviso a gran parte del Parlamento – e già bocciato per ben tre volte alla Camera dei Comuni – e una data di uscita dall’Unione fissata da ultimo al 31 ottobre. Il nuovo leader, non diversamente da Theresa May, né peraltro da David Cameron, dovrà quindi ancora confrontarsi con l’Europa, e cercare di tenere assieme un partito, quello conservatore, incapace di gestire le sue profonde contraddizioni interne sul tema europeo.
Tra le due tornate elettorali europee, peraltro, i cittadini britannici erano stati chiamati al voto altre quattro volte: nei due referendum sull’indipendenza scozzese e l’uscita dall’Ue (rispettivamente nel settembre 2014 e nel giugno 2016) e nelle due elezioni politiche del maggio 2015 e, a sorpresa, giugno 2017. Tale continuo ricorso alle urne – tra consultazioni referendarie ed elezioni anticipate – è già di per sé sorprendente in un Paese rinomato per la sua stabilità politica. Ancora più sorprendente, anche se non del tutto inaspettato, è stato il segnale d’allarme per la sopravvivenza del sistema bipartitico britannico che è emerso dai risultati elettorali. Ancora più sorprendente, anche se non del tutto inaspettato, è stato il segnale d’allarme per la sopravvivenza del sistema bipartitico britannico che è emerso dai risultati elettorali Il risultato aggregato dei due partiti cardine del sistema bipartitico britannico non arriva al 25%. Se le elezioni europee tendono di per sé a punire i partiti al governo (passato il periodo della «luna di miele» con l’elettorato), e il passaggio a un sistema elettorale proporzionale consente un voto più sincero rispetto a quello dei collegi uninominali, nelle precedenti tre tornate elettorali la somma dei voti conservatori e laburisti non aveva raggiunto la maggioranza assoluta, pur arrivandoci vicino nel 2014. Un elettore su due aveva quindi preferito partiti «altri» rispetto al duopolio conservare/laburista. Questa volta, tre elettori su quattro non hanno scelto né il partito di governo né quello «ufficiale» di opposizione.
I due terzi degli elettori – si noti: quelli che hanno votato, perché la partecipazione al 36.9%, pur non disprezzabile storicamente per le elezioni europee ed in timida crescita sul 2014, non è certo comparabile a quella delle ultime politiche o del referendum – hanno orientato le proprie preferenze su tre partiti. Da una parte, il nuovo partito di Nigel Farage, il Brexit Party, capace di raccogliere il 31,6% e portare 29 deputati (a scadenza) nell’odiata Bruxelles. Dall’altra, i Liberaldemocratici e i Verdi, a rappresentare le istanze dei Remainers con un contingente di 16 e 7 deputati, rispettivamente. A questi risultati va necessariamente aggiunto il 3,6% dei nazionalisti scozzesi, che corrisponde però a un 38% dei voti a nord del vallo di Adriano, a sancire il loro miglior risultato di sempre e a rinfoltire il voto per i partiti che si oppongono alla Brexit.
È lecito, dunque, interpretare queste elezioni come il prodotto di una sfida tra partiti pro-Brexit e anti-Brexit? E se sì, chi ha vinto la sfida? Sommando i risultati del Brexit Party e dell’ormai tramontante Ukip (fagocitato dalla nuova creatura di Farage) si arriva al 34,9%, a cui fa da contraltare il 40,4% dei partiti che si sono espressi contro la Brexit (incidentalmente, Change UK – formato da scissionisti del partito conservatore e laburista – non ha ottenuto seggi). Tuttavia, come emerge da un sondaggio post-elettorale condotto da Lord Ashcroft, la metà circa degli elettori è stata guidata dalla Brexit, scegliendo un’uscita «dura» (e quindi Farage) o un secondo referendum o una revoca dell’articolo 50 dei Trattati sull’Unione europea (e quindi Lib Dem o Verdi). L’altra metà circa degli elettori ha votato, quindi, mossa da altri fattori. Se a ciò si aggiunge l’astensione – o, per meglio dire, il dato di una maggiore partecipazione nelle aree pro-Remain – e l’ambiguità (per così dire) nelle posizioni dei conservatori e dei laburisti, si capisce come ogni tentativo di trarre delle conclusioni definitive sul consenso (o meno) per la Brexit da questo risultato elettorale sia fuorviante.
Se l’incertezza sulla Brexit continua, si può invece intonare il de profundis per i due partiti maggiori, incapaci di trovare una sintesi politica, dilaniati da divisioni interne e con leadership precarie e contestate? Come Peter Mair scriveva nell’ormai lontano 2009, la stabilità del sistema partitico inglese era già allora più apparente che reale e, si potrebbe aggiungere ora, la Brexit era lo shock perfetto per rivelarne la precarietà. Il sistema elettorale per le elezioni politiche – maggioritario in collegi uninominali – ha tradizionalmente drenato il supporto per le terze forze. Così, già alle elezioni europee del 2014, lo Ukip era stato il partito più votato con il 27 percento, si era finalmente insediato a Westminster vincendo due elezioni suppletive, ma la sua corsa si era fermata alle elezioni politiche del 2015, nonostante un non disprezzabile risultato elettorale.
Mai come in queste elezioni europee, però, i due partiti cardine del bipartitismo britannico sono naufragati e, se la questione della Brexit non verrà in qualche modo risolta, saranno probabilmente altre le forze politiche che più se ne avvantaggeranno. Stando ai sondaggi post-elettorali, dove il Brexit Party o i liberaldemocratici si alternano come primo partito, potremmo ritrovarci presto con uno scenario partitico-parlamentare del tutto inesplorato. Come ha scritto il politologo Robert Ford, se gli elettori si convincessero che «gli altri» possono vincere anche alle elezioni politiche – e non solo in elezioni di second’ordine, amministrative o europee – allora tutto diventerebbe possibile. Stando ai sondaggi post-elettorali, dove il Brexit Party o i liberaldemocratici si alternano come primo partito, potremmo ritrovarci presto con uno scenario partitico-parlamentare del tutto inesploratoTuttavia, in uno scenario così mutevole – a livello elettorale, parlamentare e finanche governativo – ogni previsione è del tutto azzardata. Quello che si può senz’altro osservare, però, è che i risultati di queste elezioni europee confermano un quadro politico ancora in transizione, dove molteplici e del tutto diverse opzioni politiche restano possibili. Il vecchio modello Westminster – stabile, prevedibile, quasi «noioso» – non è al momento più riconoscibile. Cosa venga dopo, però, è ancora tutto da decidere. Un po’ come la Brexit.
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