Nell'Italia della morsa dell'inflazione, della crisi economica e di quella climatico-ambientale, nell'estate del record negativo per presenze turistiche interne e degli incendi che hanno devastato intere regioni, si è discusso nei tavoli istituzionali di salario minimo. Le opposizioni, che hanno formulato varie proposte di legge, concordano con l'introduzione di un salario minimo per legge. Differiscono le proposte in termini dell'ammontare ma convergono sull'introduzione di un minimo retributivo che possa fungere da garanzia per il lavoro povero, lavoro che in Italia conta almeno 4 milioni e 200 mila tra lavoratrici e lavoratori.

L’attuale governo italiano di destra conservatrice e mercatista demonizza invece la povertà, identificando in "occupabili" circa 600 mila persone percettrici del Reddito di cittadinanza, che hanno approfittato della benevolenza dello Stato e a cui sarà sospeso il trasferimento; finge aperture alla discussione, ma di fatto risponde negando la prosecuzione dell'iter legislativo rimandando la questione al Cnel. Non stupisce il niet, quanto il finto celarsi dietro lo spauracchio dell'indebolimento del ruolo del sindacato nel processo di contrattazione negoziale.

Dal punto di vista dell'evidenza empirica mancano studi secondo cui il salario minimo indebolirebbe la contrattazione sindacale: all'opposto, ne aumenta la capacità negoziale

Se politicamente appare parecchio curioso, per non dire altro, sentire le destre unite nel volere impedire l'indebolimento della contrattazione sindacale a seguito dell'introduzione del salario minimo, dal punto di vista dell'evidenza empirica mancano studi secondo cui il salario minimo indebolirebbe la contrattazione sindacale: all'opposto, ne aumenta la capacità negoziale. Si ricordi infatti che tutte le proposte di legge prevedono il mantenimento e l’applicazione dei minimi settoriali contrattuali, a meno che non siano inferiori all'eventuale salario minimo legale. Ciò comporterebbe che i minimi contrattuali settoriali diventino per legge tutti uguali o superiori, e non inferiori, al salario minimo legale. Ciò costringerebbe i cattivi sindacati che firmano contratti pirata a 4 euro orari ad adeguarsi al minimo legale. A chi sostiene che il salario minimo favorirebbe il lavoro nero, si rammenta che non è giustificabile opporsi a una misura di dignità e giustizia sociale in vista delle violazioni. A chi invece sostiene che renderebbe più svantaggiose le opportunità di occupabilità per il segmento di lavoro interessato, rammentiamo che anni di evidenza empirica pubblicata nelle riviste di maggior prestigio internazionale nella comunità scientifica dell'economia, non hanno trovato evidenza di effetti negativi del salario minimo sull'occupazione.

Qui discutiamo le fondamenta teoriche delle radici dell'ortodossia economica che vede nel salario minimo un vulnus alla libera competizione e le evidenze empiriche rispetto ai suoi effetti al fine di sfatare qualche mitologia di troppo.

Il salario minimo statuatorio è stato, insieme alle altre istituzioni volte a regolamentare il mercato del lavoro, come le protezioni dai licenziamenti e la contrattazione centralizzata, oggetto di particolare ostilità da parte di istituzioni internazionali (“Unified Theory” o “Transatlantic Consensus” o “Oecd-Imf orthodoxy”, Howell, 2005) e dell’ondata di liberalizzazione partorita a partire dagli anni ottanta nei paesi anglosossoni e diffusasi negli anni novanta nel resto d’Europa. Il salario minimo è stato considerato come uno delle istituzioni all’origine della “rigidità” del mercato del lavoro, la cui erosione in termini reali inizia negli Stati Uniti già a partire dagli anni Settanta.

L’ideologia dominante di liberalizzare il mercato del lavoro ha permeato i Paesi europei, siano essi considerati liberal-market-economy (Regno Unito, Paesi Bassi) o coordinated-market-economy (Germania, Svezia), o forme ibride come i paesi mediterranei (Francia, Italia). L’idea resta quella di mercati del lavoro che debbano essere competitivi e che permettano in primis aggiustamenti elastici della variazione della domanda di lavoro al salario, eliminando il problema della rigidità al ribasso; in secondo luogo un giusto accoppiamento delle competenze.

La competizione permette di ottenere tassi di crescita più elevati. Laddove vi siano ostacoli, siano essi istituzionali o contrattuali, alla competizione e alla allocazione ottimale è bene rimuoverli. Trent’anni di liberalizzazioni hanno prodotto degli effetti ben lontani da quelli promossi dalla teoria dei mercati del lavoro flessibili e si sono sostanziati, piuttosto che in crescita sostenuti, in allarmanti tendenze che interessano sia la sfera macroeconomica che quella microeconomica. Tra di esse annoveriamo la caduta della quota del salario sul prodotto nazionale, la precarizzazione e casualizzazione dei rapporti di lavoro, l'indebolimento del ruolo negoziale centralizzato dei sindacati, l’emergere della contrattazione decentralizzata, le deroghe ai contratti di settore nazionali, l’assenza di coperture sindacali per il lavoro precario. Gli effetti non riguardano la sola equità nel mercato del lavoro ma anche l'efficienza produttiva. Infatti, negli ultimi venticinque anni, si registra un rallentamento della crescita del prodotto e una stagnazione della produttività accompagnata dall'aumento della dispersione nella produttività e nei salari.

Venendo al salario minimo, il dibattito sugli effetti della sua applicazione rispetto all’occupazione si data alla fine degli anni settanta. Nel 1981 la Minimum Wage Study Commission, istituita negli Stati Uniti nel 1977, conviene che l’impatto del salario minimo sull’occupazione è nullo o, quando c’è, è davvero trascurabile. Ciò distinguendo tra gli effetti su teenager, giovani adulti e adulti. In generale, laddove ci sia un impatto, questo sembra esservi sui lavori stagionali e legati all’attività di ristorazione nei teenager. Nel 1994, gli economisti del lavoro Card e Kreuger, conducendo uno studio sperimentale, confermano l’assenza di impatto del salario minimo nel tasso di occupazione dei lavoratori nel settore dei fast-food in New Jersey. Nel 1995, con il libro Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage, i due economisti concludono che l’impatto del salario minimo si rifletta in un accrescimento del salario per la parte bassa degli occupati ma non in una riduzione dell’occupazione.

Una meta-analisi condotta da Doucouliagos e Stanley (2009)  contenente più di mille stime dal 1972 al 2007, concorda sull’assenza dell’impatto del salario minimo sull’occupazione a bassi salari. Un importante recente avanzamento rispetto all’impatto del salario minimo negli Stati Uniti è il contributo di Dube, Lester, e Reich (2010), che generalizzando l’analisi di Card e Kreuger, studia l’effetto del salario minimo comparando contee diverse per sedici anni. Di nuovo, gli autori concludono che non si evidenziano impatti sull’occupazione mentre si riscontrano aumenti salariali.

Un recente esperimento di introduzione del salario minimo in Europa è stato fatto in Germania successivamente alla crisi del 2008, uno dei pochi Paesi che insieme a Italia, Austria e Paesi scandinavi allora non vedeva la presenza del salario minimo. L’introduzione del salario minimo è stata fissata a 8,50 euro a partire dal 2015, con revisione biennale. La misura ha interessato circa 4 milioni di lavoratori e lavoratrici, in larga parte occupati con mini-jobs (con un salario mensile di circa 450 euro) e collocati in zone della ex Germania dell’Est. Un recente contributo enfatizza come gli effetti complessivi sul numero di occupati siano stati trascurabili e comunque largamente inferiori alle aspettative pessimiste iniziali; si riscontra invece una riduzione dell’orario di lavoro nei mini-jobs, effetto che di per-sé non è necessariamente negativo (Caliendo et al. 2019). Uno degli elementi più interessanti risulta essere l’effetto di riallocazione del salario minimo. Dustmann et al. (2022) trovano che il salario minimo abbia aumentato la probabilità che un lavoratore a basso reddito si muova verso un’impresa di maggiori dimensioni e retribuzioni più alte. Al contempo, le aree geografiche maggiormente interessate dal salario minimo hanno registrato un aumento nella dimensione di impresa. Un risultato simile, in termini di uscita di imprese bassamente produttive lo si registra anche in Cina, a seguito dell’introduzione del salario minimo nel 2004 (Mayneris et al., 2019).

Veniamo ora ai meccanismi micro e macroeconomici attraverso i quali il salario minimo potrebbe innescare degli effetti di propagazione positivi. Il primo riguarda la diminuzione della diseguaglianza. L’introduzione del salario minimo rappresenta in primis una misura di equità e di dignità per chi è ai margini del sistema produttivo. Tale misura potrebbe tuttavia avere un effetto di rafforzamento del potere negoziale e di innalzamento del salario mediano. L’Italia è segnata da una lunga decrescita della dinamica salariale reale, che la vede posizionarsi in fondo alla classifica europea per retribuzione medie. Si noti inoltre come il segmento dei lavori cosiddetti marginali è in aumento dalla crisi del 2008 e come i salari di ingresso anche in lavori qualificati siano estremamente bassi. La spirale bassi-salari/lavori-dequalificanti potrebbe essere incrinata.

Gli effetti tuttavia si potrebbero propagare al livello di crescita economica. Infatti, l’introduzione del salario minimo rappresenterebbe, via canale keynesiano, una spinta alla domanda aggregata e dunque al prodotto del Paese. Ciò avverrebbe attraverso l’incremento del tasso medio dei salari, comportando un aumento del consumo, via la maggiore propensione alla spesa dei salariati rispetto ai detentori di redditi alti, profitti e rendite. La minore diseguaglianza porterebbe pertanto a maggiore crescita. Effetti del salario minimo potrebbero inoltre propagarsi dalla minor diseguaglianza alla maggior efficienza e produttività. Si metterebbero in atto meccanismi “sani” di competizione schumpeteriana, in grado di espellere le imprese peggiori, che fanno leva sul basso costo del lavoro, dal mercato. Questo permetterebbe di ridurre la dispersione della produttività e dei salari tra imprese. Infine, un ulteriore effetto di propagazione sarebbe la riduzione del divario nord-sud e aumento del gettito fiscale. Infatti i salari al di sotto dei minimi contrattuali si riscontrano prevalentemente in imprese di piccole dimensioni, sotto i dieci addetti, nei settori stagionali, legati alla ristorazione, al turismo e ai servizi alla persona. Non si sottovaluti inoltre l’effetto positivo in termini di gettito fiscale derivante dall’emersione del lavoro nero e dal caporalato.

In conclusione, l’introduzione del salario minimo va considerata una misura complementare e non in sostituzione della contrattazione sindacale. In presenza di una contrattazione centralizzata capace di fissare un salario minimo settoriale erga omnes, il salario minimo per legge risulterebbe ridondante. Tuttavia non si può prescindere dall’indebolimento delle relazioni industriali, dall’effettiva assenza di copertura dei minimi contrattuali per numerosi settori di attività (non essendovi la copertura erga omnes), dall’esplosione dei contratti nazionali (oltre i mille, secondo il Cnel), dei quali soltanto un terzo è sottoscritto dalle organizzazioni sindacali “autentiche”. A ciò si associano l’elusione dei minimi contrattuali in numerose imprese e l’emergere di accordi pirata.

Date le condizioni effettivamente limitate della capacità e degli effetti della contrattazione centralizzata, occorre far coesistere l’introduzione del salario minimo con il ruolo del sindacato

Date le condizioni effettivamente limitate della capacità e degli effetti della contrattazione centralizzata, occorre far coesistere l’introduzione del salario minimo con il ruolo del sindacato. Ciò sarebbe percorribile attraverso l’istituto dell’estensione erga omnes del salario minimo contrattuale, ossia definendo il salario minimo soltanto come il minimo da cui far partire la contrattazione, però estendendolo all’intera platea dei settori. D’altra parte, la presenza di una soglia minima potrebbe rafforzare anziché indebolire la contrattazione settoriale, che potrebbe invece focalizzarsi sulla definizione del salario al rialzo, sulle condizioni di lavoro, sul monte ore. Infine, attenzione va posta sul confine di ciò che venisse ad essere regolato dal salario minimo, se semplicemente il minimo monetario o anche l’estensione della tredicesima, ferie, premi retributivi e dunque l’insieme di ciò che si definisce il trattamento economico complessivo.

I rischi rispetto all’introduzione del salario minimo pertanto si configurerebbero sostanzialmente in rischi di non conformità da parte datoriale, di possibile fuoriuscita dai contratti nazionali, e dunque dall’indebolimento della contrattazione non per un ridotto ruolo del sindacato ma per un eventuale arretramento delle associazioni datoriali. Chiaramente, monitoraggi e controlli di conformità, insieme a forme di garanzie e tutele per chi denunciasse violazioni, sarebbero il minimo necessario, insieme a una rinnovata stagione di riconoscimento della dignità del lavoro e della giusta retribuzione.

In generale, il salario minimo statuatorio si configurerebbe come una misura in grado di aumentare il potere negoziale della forza lavoro, come strumento redistributivo ma anche di efficientamento della produzione. La sua introduzione non comporterebbe la sostituzione della contrattazione sindacale, ma dovrebbe configurarsi come minimo inderogabile di legge a tutela di più di 4 milioni di working poor.