Per mesi ci si è chiesti se, quando e come i rappresentanti delle piattaforme online e quelli dei lavoratori avrebbero raggiunto un accordo sul contratto collettivo per il settore in ascesa delle consegne a domicilio, rivelatosi «essenziale» durante il picco della pandemia. Nonostante gli attriti, infatti, le parti sociali avevano ottimi motivi per pattuire regole condivise. Era del tutto comprensibile che interessi pur contrapposti (quello delle piattaforme di evitare l’applicazione di regole a loro dire onerose e quello dei lavoratori di andare oltre lo standard minimo fissato per legge) avrebbero dovuto trovare una sintesi. Dai due fronti si era manifestata la volontà di accogliere la spinta del legislatore come un fattore abilitante del negoziato – a lungo rimandato o addirittura avversato – in merito a compensi, dispositivi di sicurezza, metriche reputazionali, bonus maltempo e diritti sindacali.

La legge approvata lo scorso novembre, infatti, fissa una sorta di ultimatum che scade a inizio novembre di quest’anno. La stessa legge amplia anche la portata di un decreto concepito nell’ambito della riforma del Jobs Act con l’obiettivo di estendere (integralmente) l’apparato delle tutele del diritto del lavoro ai collaboratori autonomi solo sulla carta. In breve, la legge 128 del 2019 ha definito un canale apparentemente duplice di tutela per i lavoratori delle piattaforme: da un lato, quelli la cui prestazione è organizzata dal committente (con l’applicazione del trattamento riservato ai dipendenti), dall’altro, i fattorini «autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore attraverso piattaforme anche digitali» (sic!). La legge 128 del 2019 ha definito un canale apparentemente duplice di tutela per i lavoratori delle piattaforme: da un lato, quelli la cui prestazione è organizzata dal committente, dall’altro i fattoriniI due modelli disegnati del legislatore, tuttavia, non vanno considerati in concorrenza tra di loro. L’intervento, che ha rafforzato una porzione innovativa Jobs Act, presenta una natura assorbente e si candida a offrire un «rimedio» concreto a tutti quei lavoratori ingaggiati come autonomi che, nei fatti, rimangono autonomi solo sulla carta. Non va trascurato che, a certe condizioni, la contrattazione collettiva possa derogare all’estensione integrale dello statuto protettivo del diritto del lavoro: a prevederlo è stato il legislatore del Jobs Act. Sebbene – come ha pure chiarito la Corte di cassazione – il testo previgente fosse di per sé valido a ristabilire un regime di tutele a beneficio di lavoratori «tecnicamente dipendenti», la legge 128/2019 ha ribadito nettamente che esiste un limite legale alla proliferazione del lavoro falso autonomo, contro cui più volte si è intervenuti negli ultimi vent’anni.

Più perplessità ha destato il capo della legge che qui analizziamo, alla luce dell’accordo siglato tra Assodelivery e Ugl riders, salutato con sprezzo dell’iperbole come il «primo contratto collettivo delle piattaforme su scale mondiale». I commentatori avevano già segnalato l’artificiosità della categoria del «rider genuinamente autonom», qualificazione che sfida non solo il senso comune ma anche principi intangibili del diritto del lavoro, quali quello della indisponibilità del tipo, e orientamenti giurisprudenziali benedetti addirittura dalla Corte costituzionale. Per di più, il linguaggio utilizzato è fortemente involuto e genera ambiguità che si prestano a essere utilizzate in maniera interessata. La norma residuale sui rider autonomi, in ogni caso, contiene un richiamo esplicito («fatto salvo») al primo capo del testo, quello che estende tutte le tutele lavoristiche ai lavoratori la cui prestazione sia organizzata dal committente, anche quando si tratti di una piattaforma.

Stando alla legge, la categoria di fattorini autonomi è titolare di alcuni «livelli minimi di tutela», ribaditi nell’accordo (informazioni per iscritto sulle condizioni contrattuali, indennità integrative per prestazioni in orario notturno, festivo o in caso di maltempo, tutele antidiscriminatorie e protezione dei dati personali). Più complesse sono le previsioni relative al compenso – fin dal 2016 terreno di scontro tra le piattaforme che hanno più volte cambiato modello, passando da regime orario a uno di «cottimo misto», e i collettivi di rider che invece domandano di interrompere la corsa al ribasso. In realtà, non mancano le fratture nel campo dei lavoratori. Negli ultimi mesi, in nome di una malintesa incompatibilità tra flessibilità organizzative e contratto di lavoro subordinato, il fronte dei fattorini si è sostanzialmente diviso tra rappresentanze storiche, sostenute dai sindacati confederali, e sparuti gruppi di rider che si battono per restare contrattisti. Questo movimento, che aveva esordito con un appello diffuso sui giornali anche grazie all’interessamento di alcune piattaforme, ha trovato la sponda del sindacato nazionale Ugl che ha stretto un accordo con l'«Associazione nazionale autonoma dei riders» (Anar). Non mancano le fratture nel campo dei lavoratori. Negli ultimi mesi, in nome di una malintesa incompatibilità tra flessibilità organizzative e contratto di lavoro subordinato, il fronte dei fattorini si è diviso tra rappresentanze storiche, sostenute dai sindacati confederali, e sparuti gruppi di rider che si battono per restare contrattistiLa disciplina dei «rider genuinamente autonomi» stabilisce che «i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente». Una concessione non da poco. In difetto di tale accordo, dopo il 2 novembre 2020 i lavoratori «non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale». Detto altrimenti, il legislatore ha incoraggiato la firma di un contratto nazionale, in assenza del quale entra in vigore un regime diverso dal pay-per-delivery e comunque in linea con i contratti di settori affini (logistica, in primis).

Si può quindi dire che il legislatore abbia inteso scongiurare il pagamento a cottimo, modello che non convince molti lavoratori dacché aumenta stress e competizione mettendo a rischio salute e sicurezza (peraltro l’assicurazione Inail obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è una conquista recente). Il conto alla rovescia sta per scadere, eppure negli ultimi mesi il confronto tra le varie sigle è andato in scena come un dialogo tra sordi. L’intesa tra Assodelivery e Ugl riders è una mossa da tempo nell’aria, per certi versi preannunciata in un’intervista rilasciata da Elisa Pagliarani, manager di Glovo e portavoce dell’organizzazione «datoriale», a Dario Di Vico del «Corriere della Sera». Pagliarani spiegava di voler evitare il passaggio da un modello di compenso «a prestazione» a uno basato meramente sul tempo e, in maniera del tutto arbitraria, sosteneva che la legge avesse previsto uno status di lavoratori autonomi per i rider del comparto.

Di questo accordo si possono contestare diversi aspetti. Primo fra tutti, il fatto che le parti contraenti si siano «scelte» in ragione di una consonanza di intenti (in gran segreto e mentre era già in piedi un tavolo tra le stesse piattaforme, i sindacati confederali e il ministero del Lavoro). Le comunicazioni di Anar fanno riferimento, con toni apocalittici, ai pregiudizi che deriverebbero in capo ai ciclofattorini in caso di modifica all’impianto retributivo applicato fino ad oggi. In più, da convinta avversatrice del contratto di lavoro subordinato, Anar sbandiera il falso mito dell’alternativa tra flessibilità e tutele. Viceversa, la letteratura internazionale sostiene che la scelta del modello di business delle piattaforme non sia dettata dalla volontà di assicurare elasticità organizzativa ai lavoratori – sempre più «incastrati» in una rete di monitoraggio costante e fruste digitali che comprimono l’autonomia –, ma dalla necessità di tenere bassi i costi in un settore che non ha ancora trovato la via della sostenibilità. Per di più, non mancano i casi di piattaforme che scelgono un modello meno liquido e deresponsabilizzato. Lo stesso Ceo di Just eat takeway ad agosto ha annunciato l’intenzione di assumere i fattorini come dipendenti.

C’è dell’altro. Il testo normativo rimanda a un accordo che sia frutto della pattuizione tra sigle comparativamente più rappresentative sul territorio nazionale. Non è questa la sede per una digressione sulla storia controversa delle relazioni industriali italiane. In assenza di regole chiare e condivise per la misurazione del numero degli iscritti e quindi del peso degli accordi sottoscritti, per identificare le organizzazioni più rappresentative si è costretti a ricorrere ad approssimazioni fondate sulla tradizione e l’autocertificazione. Ma questo è un problema di portata generale, affrontato a più riprese e mai risolto. Tuttavia, è abbastanza ardito sostenere che Anar risponda all’identikit dell’organizzazione sindacale definita dal testo di legge. Il matrimonio di convenienza con Ugl, sigla presente in tanti settori ma non esattamente plebiscitaria nel mondo della logistica dell’ultimo miglio, genera non pochi grattacapi. Comunque li si risolva, è difficile argomentare che un accordo tra Assodelivery e una sola sigla sindacale, di cui non si conosce la consistenza effettiva, sia sufficiente a disinnescare l’applicazione del regime previsto dalla legge 128 del 2019.

Non si è fatto attendere il ministero del Lavoro, che a stretto giro ha diffuso una sonora bocciatura dell’accordo Assodelivery-Ugl. La comunicazione precisa che è necessario che «a stipulare in contratto stesso non [sia] una sola organizzazione, se non nel caso limite in cui detta organizzazione non realizzi – da sola – una rappresentanza largamente maggioritaria a livello nazionale». Per questo, la firma solitaria dei delegati di Ugl non basterebbe a soddisfare il requisito della «maggiore rappresentatività comparativa». Nel merito, il ministero rileva come quanto pattuito non sia in linea con ciò che impone la legge. Infatti, sebbene il comunicato stampa rivendicasse un «compenso minimo di dieci euro per ora lavorata», il testo del Ccnl prevede un sistema diverso di compensi in base alle consegne, «senza garantire un minimo orario» come previsto dalla legge del 2019, con alcune premialità che si profilano come più come una lotteria che come una concessione. Da ultimo, il ministero si pronuncia sui primi articoli dell’accordo volti a descrivere il rapporto tra piattaforma e rider in tono fin troppo generoso con l’obiettivo di perorare la causa dell’autonomia. Ciononostante – chiosa il ministero – la questione della classificazione del contratto di lavoro non è nella disponibilità delle parti.