Da quanti anni sentiamo parlare di questione giovanile? Tutti i dati di cui disponiamo indicano che essere giovani nel nostro Paese è sempre più complicato. La difficoltà di trovare un’occupazione che premi un determinato percorso di studi è stata via via sostituita dalla difficoltà di trovare un lavoro stabile tout court, anche per via della concorrenza che viene dall’immigrazione. Puntare sull’ambiziosa idea di mettere su famiglia sembra in molti casi impossibile, ma nel frattempo i media, con un atteggiamento misto tra critica efficientista e simpatica comprensione mammesca, sottolineano l’alta percentuale di giovani italiani che tardano a staccarsi dalla famiglia di origine: comunque fanno, fanno male. Alcuni si lamentano di non riuscire a trovare un lavoro, ma in realtà “non si adattano”. Altri si lamentano di trovare soltanto lavori precari e malpagati, ma in realtà dovrebbero “baciarsi i gomiti” perché la crisi colpisce tutti. Per decenni i demografi hanno avvertito che l’invecchiamento della popolazione era contenuto a stento dalle nuove generazioni di immigrati. E una società sempre più vecchia a un certo punto avrebbe avuto conseguenze drammatiche.

Nel frattempo trascorrevano i decenni, e la rilevanza sociale di una popolazione anziana si tramutava poco alla volta in rilevanza politica. I sindacati dei pensionati prendevano il posto nel cuore dei partiti dei sindacati dei lavoratori, e la giusta e doverosa tutela di una serena vecchiaia diventava la prima preoccupazione per molte azioni di governo sparse sul territorio, di comune in comune. Eppure, converrebbe non scordare mai che una comunità, così come un’azienda, piccola o grande che sia, dovrebbe essere guidata da chi opera in una determinata direzione di crescita, comunque la si voglia intendere, per poi potere vedere i frutti del proprio lavoro. E non da chi, per banali ragioni di età, non potrà farlo e dunque non ha alcun interesse a investire, a rischiare del suo, a mettersi in gioco.

In questa Italia, che alla fine si è affidata al premier più giovane della sua storia, si ritrovano le contraddizioni che ne mettono in luce la fragilità. Così, mentre si discute di misure adeguate per intervenire sulla crisi del lavoro – e in particolare si cerca di trovare risposta alla disoccupazione giovanile, alta come non mai – si torna anche a parlare delle entrate degli alti dirigenti pubblici e si avanza l’ipotesi di intervenire con un piccolo prelievo forzoso sulle pensioni più alte. Di fronte alle resistenze dei più tutelati, il giovane precario che non può fare altro se non accettare la propria condizione accontentandosi di “stipendi” dai quattrocento ai mille euro circondati dall’aleatorietà, si trova un po’ “stupito” (e assai risentito). Anche perché per lui e per quelli come lui, per cui la pensione è fuori da qualsiasi orizzonte di realtà (e chi la vedrà mai?), diventa ogni giorno più complicato costruire progetti di vita. In situazioni, peraltro, dove il più delle volte non c’è crescita professionale e mancano del tutto quelle che sabato il governatore Ignazio Visco, auspicando “la sicurezza della continuità del lavoro”, ha chiamato “attività innovativa e acquisizione di competenze specifiche” (qui il testo della Relazione, da leggere e meditare).

In particolare, la difficile situazione sociale ed economica in cui molti giovani nel nostro Paese si trovano costretti a vivere stride terribilmente con i privilegi di molti, a cominciare da manager e dirigenti con stipendi spesso ingiustificati in relazione alle responsabilità effettive che il ruolo impone (e alle capacità mostrate). Ci sono situazioni di grande responsabilità, dove l’alto livello retributivo può apparire giustificato, ma solo se è accompagnato dai risultati. Ma in molti altri casi, si pensi alle settemila società controllate dai comuni, si assiste spesso a una moltiplicazione clientelare di incarichi e stipendi. Un tema questo su cui l’attenzione dovrebbe restare particolarmente alta soprattutto ora, con molte amministrazioni in scadenza e parecchi politici in uscita, anche dalle Province, in cerca di occupazione.

Tutto ciò al di là delle polemiche su qualche manager pubblico in particolare. Ad esempio, appare legittimo criticare l’operato dell’ad delle Ferrovie italiane, trattandosi di un servizio pubblico primario, e non può stupire che a un pendolare che vive ogni giorno sulla propria pelle lo stato desolante di molti treni regionali poco importi del bilancio in ordine del gruppo; anche per questo non sarebbe male se l’ex sindacalista Moretti, che si ritrova criticato in relazione al rapporto tra il proprio stipendio e l’efficienza del servizio di cui dovrebbe essere primo garante, moderasse i toni (anche in considerazione del fatto che un tetto alle retribuzione dei manager di società pubbliche ci sarebbe già). Se non altro, darebbe un segno di intelligenza e di rispetto nei confronti di tutti coloro che pagano più di altri il prezzo di una crisi pesante e di una politica inefficiente. A cominciare dai giovani. Ma forse è chiedere troppo.